MAI Più

Non dirò il mio nome, tanto cosa potrebbe cambiare sapere se mi chiamo Lola o Laura? Nulla. Ma volevo raccontare la mia storia, quella che molte tacciono pensando sia una normalità, un destino, ma che non può essere tale. Non può.

Lo rivedo, dopo più di dieci anni. Io ero molto diversa, lui a pensarci bene, era simile al passato. A quel passato adolescenziale che trasforma i brutti in belli, i belli in bellissimi e i belli (quelli veri) in simpatici. Anche allora quello sguardo un po’ liquido mi aveva travolto, e dopo tutti quegli anni lo continuava a fare. Sorrideva incredulo, parlava e rideva con i capelli che gli gocciolavano sulla fronte, mentre uscendo dal parrucchiere lo sentii chiamare il mio nome. Fu un suono vuoto nel mio stomaco, ma un ritmo velocissimo di tamburi nelle mie orecchie.

“Come stai?”, “Bene dai e tu?”, “Bene, bene”. E ci scappa da ridere. Dovevo rientrare al lavoro, lo salutai e lui mi mise in mano un foglietto con sopra scritto la sua mail, mentre si scriveva sulla mano il mio. Salii in macchina e iniziai a guidare anche se in realtà stavo percorrendo a ritroso quello stupido periodo dell’adolescenza pensando, in modo ancora più infantile, che se l’avevo rivisto c’era un motivo, era certamente un segno del destino.

Mi scrisse e io risposi. Ci scambiammo mail per una settimana; ero contenta, elettrizzata.

La prima volta che mi chiamò (alla fine ci scambiammo anche i numeri di cellulare) fece un commento terribile sulla mia voce. 

Pensai che volesse nascondere l’imbarazzo. Ma non era così. Il suo linguaggio era spesso sprezzante, arrogante e violento. In ogni cosa. Anche quando facevamo l’amore non si scordava di essere violento. E anche se io la confondevo per passione, in realtà era solo violenza.

Non mi resi conto di come lentamente mi allontanò dalle mie amiche, dai miei amici. Diceva che voleva solo me, che il suo tempo fosse il mio, che il mio spazio fosse il suo. E tutte le sere insieme. Mi veniva a prendere al lavoro e mi portava a casa sua dove viveva solo. Il più delle volte si metteva al computer ad armanaccare con programmi di suoni e grafica chiedendomi di stare a sedere accanto a lui. Le prime volte volte mi pareva di scoprire chissà che, poi iniziai ad annoiarmi, ma non era possibile pensare di potermi allontanare. Provai a farlo una volta sola e la conseguenza fu una lite crudele. Mi disse che non lo amavo abbastanza, che ero una persona insensibile e che non conoscevo la condivisione. Un manipolatore.

Gli interessi erano i suoi e i suoi soltanto. Quello che piaceva, interessava incuriosiva me non era importante. Potevo alzarmi da quella sedia solo, nel caso mi fossi fermata per cena, per andare a preparare o se aveva voglia di fare sesso. La cosa peggiore era che io continuavo a pensare che quelle cose fossero solo il suo modo un po’ così di esprimere l’amore grande che nutriva per me.

Quando mi chiese di andare a vivere con lui ero già molto sola e travestii quella proposta nell’occasione che meritava quell’amore: un progetto per noi due. In realtà lui completò il potere che aveva già su di me. Tenni per un anno il cellulare spento perchè ogni telefonata faceva scaturire una lite su chi aveva chiamato e perchè, non importava fosse uomo o donna. L’uomo perchè era uomo, la donna perchè senz’altro mi stava dando informazioni su un eventuale incontro con un presunto amante. Non potevo fare apprezzamenti su un posto (con chi ci sei stata qui?), su un film (cosa ti ricorda? Chi ti ricorda?), una canzone (chi te l’ha fatta ascoltare?). Fantascienza.

Il mio primo schiaffo arrivò un pomeriggio che venne a casa mia. Ero passata a prendere delle cose, il cellulare era ovviamente spento e lui cominciò a chiamare sul telefono di casa. Avevo chiamato un’amica di allora, per sentirla, per provare a sentirmi una persona normale. Piombò in casa perchè aveva trovato il telefono di casa occupato per un tempo troppo lungo, sospetto. Con chi potevo aver voglia di parlare per un tempo così lungo ? Dissi che era una mia amica, come era in realtà. E di che cosa dovevamo parlare, cosa avevamo da dirci? Io pensai scherzasse. Cazzi miei, risposi. Non feci in tempo a finire la frase. Caddi sul letto, eravamo in camera mia. Ma non ebbi spazio per realizzare cosa stava succedendo che lui era già in lacrime ai miei piedi che implorava perdono. Non stavo capendo, ma questo era l’aspetto meno importante perchè quello schiaffo aprì la porta a tutto il resto. Botte e poi lacrime, ancora botte e poi fiori e cene al ristorante, poi ancora botte e violenze, ma io amo solo te perdonami. E io non riuscivo ad uscirne; era come se non trovassi mai le energie sufficienti, era come se pensassi che alla fine tutto quello me lo meritavo ed era giusto così. Quando qualcuno mi diceva lascialo!, a me sembrava che mi dicesse vola in alto nel cielo e sapendo di non essere un uccello, sapevo perfettamente che non era possibile.

In una delle tante notti in cui confondeva fare l’amore con violentare la propria compagna (come chiamare i suoi desideri sessuali uniti alla mie lacrime?), non appagato da quel sesso, cominciò a urlarmi addosso e picchiarmi. La ragione era sempre la stessa: se non mi andava di fare sesso o l’avevo fatto con qualcun’altro o non c’era altra spiegazione. Urlai, chiesi aiuto, ma non c’era nessuno a sentirmi.

Mi vestii per scappare, ma dato che i pantaloni e il maglione che indossavo erano stati un suo regalo per farsi perdonare, mi ordinò di toglierli: se proprio volevo andare via l’avrei fatto senza la « sua » roba. Mi fece spogliare, rimasi in mutande e reggiseno e rincorrendomi con un cavalletto per dipingere che desiderava rompermi in testa, mi scaraventò fuori dalla porta. Era inverno; piangevo, ero terrorizzata e avevo freddo. Aprì la porta e mi disse di entrare, dove volevo andare senza di lui? Aveva ragione, ero in trappola.

Pesavo quarantasette chili, gli occhi sempre velati, pallida e senza sorriso. Non riuscivo più a sognare, a immaginare la mia vita. Mi alzavo, mi vestivo, non potevo truccarmi e soprattutto ero continuamente vittima dei suoi agguati: quando usciva di casa e rimanevo sola a pettinare quell’incapacità di prendermi cura di me, lui all’improvviso rientrava e mi accusava di nascondere un presunto amante. Guardava sotto il letto, negli armadi, fuori dalle finestre. Era umiliante.

Qualche sera fa, una cara amica che non vedevo da molto mi chiesto: ma alla fine come hai trovato la forza di lasciarlo?

E’ stato strano.

L’ennesima lite, l’ennesima richiesta di perdono e…potrei giurarlo. All’improvviso non ero più la protagonista, ma spettatrice: stavo guardando la scena da fuori. Mi stavo guardando e mi facevo una pena infinita. Ascoltavo le sue parole, mentre provavo compassione per la mia miseria. Parlava, parlava, ma quelle parole altro non erano che bugie, arroganza, prepotenza e volontà di manipolare. Tra le tante cose che ascoltai non riuscii a trovare una parola d’amore.

Quello non poteva essere amore, no. L’amore ti deve far sorridere, ti deve far diventare bella, ti deve insegnare, far crescere, far dormire sonni tranquilli, ti deve incoraggiare e guardare con orgoglio le tue imprese solitarie.

Tornai in me e mi sentii dire: “Ho bisogno di stare da sola, almeno per un po’; lasciami andare”. Eravamo su una strada trafficata, non avrebbe potuto fare nulla. Credo che non si aspettasse quella mia affermazione, lo colsi impreparato. E noi? Lo sentii chiedere; avrei voluto urlare che non c’era noi, ma solo lui. Il noi era stato uno spauracchio per farmi restare, ma tutto quello che c’era era solo lui, i suoi interessi, i suoi sospetti, le sue voglie, i suoi tempi, i suoi gusti, i suoi colori, le sue botte, la sua violenza, la sua manipolazione. Io non c’ero più.

Salii in macchina e tornai a casa mia. Per la prima notte dormii di un sonno profondo, ristoratore, meraviglioso. Ho provato a ripartire e ci sono riuscita.

Non sono mancati i pedinamenti da parte sua, ma lentamente si arrese, forse era riuscito a trovare un’altra.

Ho voluto raccontare questa storia, questa mia storia, per provare a fare arrivare la luce anche a chi in questo momento vive al buio, per incoraggiare a vedersi anche chi non si vede più, per aiutare a ritrovarsi chi in questo momento non sa nemmeno su che pianeta abiti. Non è l’amore che ci lega a queste persone, non è perchè ci amano che scelgono di stare insieme a noi. E’ solo perchè siamo lo specchio migliore che fino a quel momento sono riusciti a trovare, dove vedono l’immagine di se stessi, uomini potenti e virili. Ma si dimenticano di vedere anche tutta la merda che lo specchio gli restituisce.

Sono riuscita ad uscirne credo per istinto di sopravvivenza, sono tornata a vivere con fatica, talvolta difettosa di fiducia nell’altro. Forse non so ancora bene cosa voglio, ma so certamente cosa non voglio.

Più, mai più.