La storia di ogni guerra

La storia di ogni guerra è, anche, la storia di molte donne. Scorrendo indietro nel tempo mi vengono in mente le parigine che marciarono affamate su Versailles durante la Rivoluzione francese, per protestare contro i rincari del pane, e costrinsero il re a fare ritorno alle Tuileries; penso alle migliaia di donne che durante la Grande Guerra presero il posto di mariti, figli, fratelli nelle fabbriche, ottenendo in cambio che la produzione industriale non si fermasse, ma soprattutto una nuova idea di emancipazione e libertà, perfino nella moda (le gonne ampie e lunghe furono sostituite dai pantaloni, più pratici davanti ai macchinari e meno facili a impigliarsi).

E penso alle staffette partigiane durante la Resistenza, che trasportavano documenti e armi a rischio della propria vita, e hanno contribuito al pari degli uomini alla liberazione dal nazifascismo.
Ma gli esempi da raccontare sarebbero molti di più, se oggi la narrazione non fosse oscurata, e qualche volta sostituita, dalle immagini.

Le donne che vedo oggi, nella guerra che si combatte da poco più di un mese alle porte dell’Europa, sono in fuga, ferite, in lacrime. Immagini iconiche che tra pochi decenni troveranno spazio sui libri di scuola, accanto a quelle in bianco e nero di Robert Capa o di Nick Út. Immagini che spesso non hanno un nome, ma che non riusciamo a toglierci dalla testa, in una galleria fotografica di sofferenze che ci fa visita nei sogni.

 

C’è la giovane incinta nel suo pigiama a pois, che viene scortata fuori dall’ospedale di Mariupol colpito dai missili russi. Ha un’espressione quasi triste, incredula, e porta un sacco nero di plastica con le sue poche cose. Lei un nome ce l’ha: si chiama Marianna, e il dieci marzo ha partorito una bambina. Entrambe sono sopravvissute. Ma un’altra giovane donna incinta, che abbiamo visto portar via in barella, ferita all’addome, dallo stesso ospedale, non ce l’ha fatta; lei e il suo bambino sono morti poche ore dopo lo scatto di quella foto, troppo gravi le condizioni di entrambi.

C’è un’altra donna la cui immagine mi è rimasta impressa nell’anima: sguardo spento, passo lento, cammina lungo una strada col suo cane al guinzaglio, e ha due gatti che sbirciano fuori dal suo giaccone invernale, al riparo dal mondo. Fugge dalla sua città portandosi dietro quel che ha di più prezioso, e non si tratta di gioielli o beni di valore. L’unica cosa che insegna la guerra, quasi sempre, è a ridefinire le priorità, ma lo fa nel più doloroso dei modi.

E poi ci sono le donne che vanno in tv, nei talk show che troppo spesso sono feudi maschili, dove si deve alzare la voce per dire la propria: lo fa con piglio militaresco il vicepremier ucraino, Iryna Vereshchuk, e desta scalpore quando chiede le stesse cose che da settimane chiede Zelensky. Ma è donna, le sue esternazioni vengono soppesate con un metro di giudizio più severo. Ci sono le influencer russe e le giornaliste ucraine, quelle che sono rimaste in patria e quelle che vivono da anni all’estero perché a casa propria sarebbero o sono state vittime di purghe o censura; ci sono le nostre corrispondenti di guerra, che durante il tg della sera ci raccontano, alla luce fioca delle lampadine imposte dal coprifuoco e dall’oscuramento, quello che succede lassù. Ci sono i volti addolorati e impauriti delle donne anziane portate via in carrozzella o su carriole di fortuna dalle loro case bombardate, fatte salire su ambulanze o pullman, curate in ospedali per ferite del corpo e dell’anima: come Kateryna, a cui hanno amputato la gamba destra dal polpaccio in giù, e non sa come potrà tornare al lavoro dopo la guerra, ammesso che un lavoro a cui tornare ci sia ancora. E poi ci sono gli sguardi, un po’ meno infelici, di tutte quelle bambine e ragazze che ce l’hanno fatta a scappare, e ora sono ospiti di qualche paese che le accoglie, e magari offre loro la possibilità di una vita vagamente normale, quel tanto che basta per non impazzire del tutto.

Quando penso alla guerra penso, anche, a questi volti femminili; che combattono lungo un fronte tutto interiore, e scavano trincee non meno profonde di quelle dei soldati. Faglie che contengono corpi, oltre che ricordi e speranze, e separano nettamente il prima dal dopo, a partire da quel 24 febbraio 2022 in cui è iniziato, o finito, tutto.

Stefania Berti

Il male, il Circeo

Ho visto un film che mi ha accoppato. Letteralmente. Forse perché ho un figlio e una figlia, forse perché sono una donna, forse per tutte e due le cose. Si tratta di un film doveroso, che forse arriva in ritardo. Ci voleva, che qualcuno raccontasse a chi è nato dopo e non ne ha mai sentito parlare cosa successe in quella notte spaventosa del 1975. Ci voleva, che qualcuno mostrasse cosa può succedere quando si accetta un passaggio da uno sconosciuto, anche se quello sconosciuto ha il volto perbene e le maniere gentili di uno studente universitario di buona famiglia. Come poi il film ci riesca o non ci riesca, e da quale opinabile punto di vista il regista osservi i fatti, attiene a un giudizio che non spetta a me formulare.

La scuola cattolica” di Stefano Mordini, tratto dal romanzo autobiografico di Edoardo Albinati, racconta il massacro del Circeo: 36 ore di orrore al termine delle quali una ragazza morì e un’altra sopravvisse a stento. Rosaria Lopez e Donatella Colasanti, un giorno di fine estate, conobbero un ragazzo e gli diedero il proprio numero di telefono; lui, estraneo ai fatti di sangue che poi seguirono, lo passò a Angelo Izzo e Gianni Guido, le due anime nere che progettarono e misero in atto il massacro. Lunedì 29 settembre 1975 portarono le due ragazze nella villa al mare di un loro amico, Andrea Ghira, che dopo qualche ora li raggiungerà; e lì le tennero prigioniere per un giorno e mezzo, abusando ripetutamente e a turno di loro. Le torturarono, le drogarono per tenerle docili e alla fine annegarono Rosaria in una vasca da bagno. Donatella invece fu presa a calci e pugni, strozzata con una cintura, colpita con una spranga; ma non voleva morire, quella stronza, così sentì dire a uno dei due mentre la picchiavano. Però ebbe l’intuizione di fingersi tale, e si salvò. Quando le due ragazze furono chiuse nel portabagagli dell’auto di Guido, avvolte in una coperta, lei non mosse un muscolo, non emise un fiato. E mentre i due aguzzini erano non lontano nel quartiere lei iniziò a picchiare colpi alle pareti dell’auto, e fu così che un metronotte che passava di lì la sentì e la liberò. C’era anche un fotografo che soffriva di insonnia, nei pressi, e fu lui che consegnò alla cronaca e alla storia le immagini del suo volto tumefatto e allucinato mentre la aiutano a uscire. Izzo e Guido furono arrestati poco dopo; Ghira fuggì, si diede un falso nome, si arruolò nella Legione Straniera spagnola, il Tercio, sotto falso nome; forse qualche volta tornò a Roma, forse no. Diventò un fantasma, che di sicuro tormentò le notti di Colasanti negli anni a venire. Non si riprese mai del tutto dagli eventi di quella notte, secondo chi l’ha conosciuta, e non ha mai smesso di lottare per avere giustizia.

Gli assassini del Circeo non hanno mai mostrato un vero pentimento per il loro gesto, e negli anni successivi sono stati protagonisti di altri fatti criminali: due evasioni per Guido, due omicidi per Izzo, che oggi è un vecchio bolso e malandato che dal carcere, fortunatamente, non uscirà mai più. Gli occhi tradiscono ancora follia e malvagità; ma ha perso tutto di quel fascino un po’ sporco, da ragazzo ribelle ma con le spalle coperte dalla ricchezza e dalla posizione sociale della sua famiglia, che trasse così facilmente in inganno le due ragazze.

Forse un’altra cosa gli è rimasta: l’odio di classe e di genere che rovesciò addosso alle sue vittime: erano due ragazze di un quartiere di periferia, una barista e una studentessa, aspiranti attrici o modelle che sognavano una vita diversa e l’incontro con un principe azzurro, magari dei Parioli, mentre sfogliavano fotoromanzi. Furono trattate col disprezzo che i ricchi riservano agli oggetti che li hanno stancati: due bambole rotte, due “pezzi di carne” di cui disfarsi, ma non prima di essere andati a mangiare una pizza, scherzando sul gesto appena compiuto come se si trattasse di un’impresa eroica.

È questo l’aspetto della vicenda che fa più male: il disprezzo che si legge nei loro volti e nelle loro parole, fedelmente ricostruito grazie ai verbali del processo e alle foto d’epoca. È lo specchio dell’Italia di quegli anni, in cui l’odio di classe si nutriva della nostalgia per ideologie ormai morte e sepolte, e in cui l’onda lunga del Sessantotto pareva non aver minimamente cancellato una cultura ancora misogina e patriarcale. Fu per questo che le femministe insorsero e pretesero che la legge fosse riscritta: dopo i fatti del Circeo lo stupro da reato contro la morale pubblica divenne, ma solo dopo un lungo iter parlamentare, un reato contro la persona.

Ma questo non bastò a restituire la pace a Donatella Colasanti. 

Che forse, in fondo, da quel portabagagli scuro e spaventoso non è mai davvero uscita.

Stefania Berti

Il tradimento del corpo

Ho avuto la mia seconda figlia poco prima di compiere i quarant’anni, e poiché ero terrorizzata dall’idea che qualcosa potesse andare storto mi sottoposi a un esame piuttosto invasivo, la villocentesi, che avrebbe rivelato la presenza di eventuali patologie genetiche nel bambino. 

Ho ancora il ricordo di un ago molto lungo che si infilava nella mia pancia di dodici settimane, del colorito terreo di mio marito quando vide il dottore che effettuava il prelievo, e dei giorni di assoluto riposo successivi all’esame affrontati senza ansie; perché mi fidavo – forse ingenuamente – della capacità del mio organismo di subire sollecitazioni anche così pesanti. 
Chiara di anni ne aveva 42 quando anche lei rimase incinta, e mi telefonò per sapere in cosa consistesse questo esame di cui le avevo parlato e a cui molte donne avevano paura di sottoporsi. Poiché a me era andato tutto bene sminuii la questione; le dissi di andare tranquilla, che era una cosa tutto sommato semplice e indolore; le dissi di affidarsi ai dottori e di non preoccuparsi, perché solo l’1% dei casi portava alla perdita del bambino. Lei era tosta, non sarebbe certamente successo nulla.
Mi telefonò piangendo poche settimane dopo: “Sono io quell’1%”, mi disse. Il prelievo aveva causato la rottura del sacco amniotico; lei era rimasta immobile in un letto di ospedale per alcuni giorni, ma aveva continuato a perdere liquido, finché i medici non avevano più sentito il battito del cuore del suo bambino.
Rimasi scioccata perché le avevo parlato di quell’esame come di un’esperienza da affrontare con serenità, e per lei si era rivelato un incubo di cui mi sentivo responsabile, anche se vivevamo in città diverse e non l’avevo indirizzata io dallo specialista a cui si era rivolta.
Non ho più parlato con leggerezza di malattie, interventi chirurgici, cure o terapie mediche da quel giorno, sottovalutandone la portata; ho capito, troppo tardi, che i corpi possono tradirci in qualsiasi momento, anche quando sono, o sembrano, forti e sani.
 
Non conosciamo noi stessi, a volte, come potremmo consigliare un’altra persona se spesso non siamo in grado neppure di ascoltare i segnali che ci manda il nostro?
Chiara è morta ieri.
Aveva appena compiuto 49 anni, e un tumore al pancreas non le ha lasciato scampo e se l’è portata via. Si è sottoposta a un’operazione lunga e delicatissima, ma non si è più svegliata. 
A fine luglio l’ho incontrata, era la prima volta che la vedevo da quando le avevano diagnosticato il male.
Mi ha detto che non aveva praticamente mai visto il mare, questa estate, e che sarebbe andata in un posto caldo d’inverno, col compagno e quel figlio che sette anni prima, per poche settimane, aveva avuto un fratello o una sorella.
 
Chiara mi ha parlato di quell’operazione come di uno spartiacque che non vedeva l’ora di attraversare, nonostante la paura e la preoccupazione. Ho pianto anche troppo, mi ha detto: e quando ho capito che non serve a nulla piangere, perché le lacrime non ti curano, ho ricominciato a sorridere e a sperare. 
 
Questa volta sono stata io a credere con tutte le mie forze alle sue parole, e ho pensato che quell’operazione le avrebbe regalato un altro po’ della vita meravigliosa che si meritava.
Il suo ultimo messaggio prima di entrare in sala operatoria è stato: vado, lo stronco e torno. Intanto annaffiatemi i fiori.
 
Sono certa che il posto dove sei andata adesso, amica mia, ne sia pieno, e sono di quelli che non appassiscono mai.
 
Stefania Berti

Cambiare

Sì, abbiamo ragione a schifarci del video di Grillo. Per le parole, il modo e anche la superficialità
È un padre che se condannano il proprio figlio dovrà fare i conti con se stesso, prima che con la legge. 
Perché, se tutto venisse confermato, sarà un padre che non ha insegnato abbastanza i concetti di rispetto, del senso del limite e della differenza
Non riesco ancora a rassegnarmi a chi urla questa inaccettabile cantilena sulle vittime, che denunciano troppo tardi o troppo presto, di quelle che non appaiono abbastanza scosse o troppo, di quelle che sapevano a cosa andavano incontro e quindi recitano, di quelle che non hanno una buona fama o di quelle che ce l’hanno troppo buona e quindi è falsa.
Mi continuo d’altronde a stupire del fatto che ci accorgiamo di tutto questo quando c’è qualcuno che urla questa triste realtà. Quando non possiamo fare a meno di ascoltarla, fra commenti e opinioni spesso di bassa lega.
L’occhio sulla vittima, sempre.
Grillo ha fatto un video sottolineando che il giorno dopo la ragazza che ha denunciato i quattro giovani, tra cui il figlio, con l’accusa di violenza di gruppo, sia andata a fare kite surf. Quindi questo “minimizzava” il concetto di violenza.
Abbiamo avuto una nota carica istituzionale che riceveva minorenni nella sua villa per fare festini. Si è parlato (o meglio, straparlato) di “carne fresca” a disposizione di maschi facoltosi che pagavano profumatamente le ragazze. Eppure se si tratta di minorenni, si tratta di violenza.
Abbiamo assistito alle testimonianze contro Weinstein, accuse che hanno generato il movimento femminista metoo, scartando però le vittime che poco rappresentavano la parola violenza ai nostri occhi.

Non può reggere. Non possiamo più continuare, alla luce di una violenza denunciata, a guardare con sospetto la vittima cercando di rintracciare l’alibi di chi l’ha agita. Non possiamo standardizzare comportamenti legati ad una reazione personale.

Se va a fare kite surf allora che violenza è?, se viene pagata anche se è minorenne non possiamo dire che è violenza e se entra in camera di un uomo potente cosa pensava di fare?…

Invece di standardizzare la vittima, cercando un comune denominatore alla reazione, cominciamo a delineare meglio cosa significa agire violenza: se quello che è stato agito è stato fatto nel rispetto della persona, dell’età, dell’esercizio del potere, dell’etica.
 
Una volta fatto questo scopriremo che quello che ha fatto la vittima il giorno dopo, se ha ricevuto dei soldi o se abbia avuto altre relazioni ci interesserà sempre meno, perché stiamo imparando a chiamare la violenza con il suo nome, guardandola in faccia e scoprendo finalmente che la vittima la violenza la subisce, non la provoca.
 

Abbiamo bisogno di cambiare per poter creare una società migliore, magari non del tutto scevra dalla violenza, ma almeno che sia in grado di riconoscerla.

Margherita Lunati

Donne e STE(A)M

La matematica e le materie scientifiche non mi sono mai piaciute. Sono stata “iniziata” fin da piccola alla lettura e alla scrittura, mi sono appassionata di arte, storia, latino. Nessuno nella mia famiglia, tranne forse mio padre, ha mai capito molto bene le regole della matematica né lo ha mai voluto particolarmente.

Mia figlia ha quasi 4 anni, le piacciono molto i libri illustrati e gli animali, ha una grandissima fantasia, inventa storie mirabolanti, personaggi curiosi e linguaggi a me incomprensibili. Sto cercando di farle vedere un po’ di tutto, tra cartoni, libri e il mondo reale (pandemia a parte, purtroppo). Le ho preso dei libri che parlano di scienza, ovviamente adeguati alla sua età: si è incuriosita, mi chiede del corpo umano, di come siamo fattǝ, vuole fare degli esperimenti con piccole cose che abbiamo in casa. Io all’inizio mi sforzavo (lo facevo per lei e basta) perché lo pensavo un ambito privo di grandi attrattive per me, ma in realtà mi sono incuriosita: alla fine capire un po’ di “come” e di “perché” di quella che è la nostra quotidianità è stimolante. Tutto ciò a riprova (se mai ce ne fosse bisogno) di quanto il contesto sociale e culturale in cui nasci e cresci ti possa influenzare e influenzi le tue scelte di vita e financo le tue passioni. Ritorno alla mia affermazione iniziale: le materie scientifiche non mi sono mai piaciute o non mi sono piaciute perché nessuno me le ha mai presentate in modo da suscitare il mio interesse (come è stato con la lettura e la scrittura) e perché mi sono appassionata ad altre cose che mi è capitato di incontrare prima?

In un mondo ideale, vorrei che mia figlia potesse scegliere libera da condizionamenti. Quelli che le possiamo, anche se involontariamente, imporre io o altri in famiglia, quelli che le imporrà la società con cui verrà a contatto (persone, ambienti, …). Alla fine spero che faccia quello che le piace davvero. E mi auguro che mai pensi di essere meno brillante o intelligente di un suo coetaneo maschio (uno studio del 2017 ha rilevato che bimbe dai 6/7 anni fanno fatica ad attribuire al loro stesso genere caratteristiche come l’essere brillante, mentre fino ai 5 anni non si notano differenze tra maschi e femmine).

Al di là delle mie considerazioni personali, comunque è evidente che esista un gender gap rilevante nelle materie STEM (acronimo inglese che indica scienze, tecnologia, ingegneria e matematica).

Nel mondo meno di 4 laureate su 10 nelle materie STEM sono donne (fonte The World Bank). In Italia, solo il 18% delle ragazze segue corsi STEM e le stesse non ottengono i medesimi risultati degli uomini nel mondo del lavoro (fonte Almalaurea). Perché esiste questo divario? Le ragazze sono meno portate per le materie scientifiche oppure preferiscono materie come l’italiano o la storia? Magari dipende da ragioni genetiche di differenze tra uomini e donne?

Photo by Priscilla Du Preez on Unsplash

Anche se in passato la ricerca scientifica ha provato ad argomentare che le donne sono più adatte a prendersi cura della famiglia e sono dotate di più grande empatia, mentre gli uomini eccellono nelle attività che richiedono ragionamento logico e spaziale, in realtà non è affatto così (per chi è interessatǝ, un articolo della Harvard Business Review qui). In realtà, in alcuni paesi il divario non esiste o è a favore delle ragazze (quindi non dipende da fattori genetici) e questo divario è inferiore in quei paesi dove si registra una maggiore uguaglianza di genere.

Inferiori di Angela Saini
Per chi vuole approfondire il tema, consiglio un libro molto interessante, Inferiori di Angela Saini, giornalista scientifica laureata a Oxford. Saini parte dal presupposto che abbiamo fiducia nel fatto che gli scienziati ci forniscano dati oggettivi e che la scienza ci proponga una storia senza pregiudizi. Quando si tratta delle donne, però, in gran parte non è così: le donne sono state poco rappresentate nella scienza perché nel corso della storia sono state considerate inferiori dal punto di vista intellettivo e quindi escluse. Perfino da Darwin, uomo del suo tempo, che riteneva le donne non solo inferiori per natura, ma anche meglio collocate in una vita all’interno delle mura domestiche. Ciò fece giustamente indignare Caroline Kennard, che aveva un ruolo importante nel movimento femminile di Boston e interessata alla scienza. Kennard rispose a Darwin “per favore, fate prima in modo che l’ambiente delle donne sia simile a quello degli uomini e che abbiano le stesse opportunità, e poi potrete giudicare con equità se sono inferiori all’uomo dal punto di vista intellettivo”.

Il libro di Saini è un lavoro basato su prove fondate e mette in discussione l’idea della donna come essere sottomesso, debole e poco incline alla scienza. Un insieme di ricerche scientifiche che afferma l’importanza dell’uguaglianza tra i sessi. Quando si parla di uomini e donne spesso si corre a ricercare differenze, seguendo una logica binaria che però si può rilevare infruttuosa. Perché invece non pensare a un terreno comune per una maggiore vicinanza tra le persone e dunque per una società più equa?

Didattica sperimentale
C’è stato un interessante progetto di didattica sperimentale (se ne dovrebbero sicuramente fare molti di più) in 25 scuole primarie della provincia di Torino, Affrontare il divario di genere in matematica in Piemonte.

La metodologia di insegnamento ha riguardato attività laboratoriali in cui è stata stimolata la discussione, la condivisione di idee e l’interazione, cercando di ridurre la pressione sulla competitività. Questo metodo ha avuto un impatto positivo sul rendimento scolastico in matematica delle bambine, portando a una riduzione del divario di genere tra il 29,5% e il 46,2%, senza determinare cambiamenti nella performance dei bambini. Questo ci dice che le metodologie didattiche utilizzate hanno un ruolo importante nella riduzione del divario di genere in matematica.

Progetti di questo tipo mettono in evidenza come il divario di genere sia molto legato alle pratiche sociali e discorsive che contraddistinguono le culture e che poi anche le Istituzioni applicano. Se insegnanti, famiglie e società continuano a trasmettere stereotipi di genere legati al fatto che le donne non sono portate per le materie scientifiche, le ragazze si sentiranno meno brave e continueranno a essere meno brave in queste materie. 
Gli stereotipi di cui sono portatori gli adulti si riflettono, quindi, sui bambini e sulle bambine.

Formazione
Nella formazione di nuove figure professionali sta emergendo la necessità di promuovere competenze trasversali che riescano a connettere competenze scientifico-tecnologiche a competenze umanistico-relazionali: da qui l’introduzione della A (Arts) nell’acronimo STEM. Secondo l’Osservatorio Competenze digitali 2020 realizzato da Aica, Anitec-Assinform, Assintel e Assinter-Italia, tra i profili professionali emergenti la componente di competenze digitali è del 43%, seguita dalle soft skills (37,8%) e da altre competenze non digitali (19,2%).

E voi, che rapporto avete con il digitale e le materie scientifiche?

Francesca Brunetti

Parole in libertà – Counseling con la Biblioteca San Giorgio

Hai mai sentito l’esigenza di cambiare un aspetto della nostra vita che ci crea disagio o addirittura sofferenza?  

Nei momenti difficili, è normale provare smarrimento, avere delle difficoltà, sentire il bisogno di confrontarsi con una persona che offra uno spazio di ascolto e riflessione non giudicante
Ci concentriamo sulla modalità di affrontare problemi specificifavorire la presa di decisioniaiutare a superare una crisi momentaneamigliorare i rapporti con gli altriaccrescere la conoscenza e la consapevolezza di sé

Come? Aiutando a riconoscere con più chiarezza gli elementi in causa e a utilizzare al meglio le proprie risorse e possibilità per migliorare la propria situazione. 
L’obiettivo degli incontri è quello di iniziare a migliorare la consapevolezza di sé e delle proprie modalità di relazione.

Quando?
Sabato 16 gennaio 2021, ore 15-17 
Mercoledì 20 gennaio 2021, ore 10-12
Sabato 23 gennaio 2021, ore 15-17
Mercoledì 27 gennaio 2021, ore 10-12
Sabato 30 gennaio 2021, ore 15-17
Mercoledì 3 febbraio 2021, ore 10-12
Sabato 6 febbraio 2021, ore 15-17
Mercoledì 10 febbraio 2021, ore 10-12
Sabato 13 febbraio 2021, ore 15-17

Sono previsti due incontri individuali di counseling a persona, in modalità online tramite la piattaforma Skype, della durata di un’ora ciascuno.

Come puoi fare a prenotarti? Manda una mail a: cameliaonlus@gmail.com

Cogli Camelia online!


Photo by Masaaki Komori on Unsplash

Da oggi riaprono molte attività che in questi mesi sono state ferme a causa dell’emergenza Covid-19…
Noi di Camelia abbiamo preso la decisione, a dire il vero molto sofferta, di non riaprire la nostra sede per il momento. Il periodo di fermo dell’associazione ci ha fatto riflettere sul nostro percorso, quello finora intrapreso e soprattutto quello che vogliamo intraprendere da ora in avanti.
Saremo vicine alle persone che frequentano l’associazione implementando la nostra presenza sui canali online. L’attività del centro di ascolto continua con i colloqui individuali tramite videochiamata: abbiamo previsto una serie di pacchetti (da 3, da 5 e da 10 colloqui) per rispondere alle esigenze di tutti, adolescenti e adulti. Potete scriverci alla mail: cameliaonlus@gmail.com per avere maggiori informazioni sui costi e sulla tessera associativa, dal momento che tutte le attività sono rivolte ai soci di Camelia.
Crediamo fortemente nell’importanza di spazi di ascolto e riflessione per elaborare emozioni e conflitti interiori, soprattutto in momenti di forte incertezza come quello che stiamo vivendo.

                                                                        Photo by Rodion Kutsaev on Unsplash

Presenteremo, più avanti, la nostra proposta di corsi online per adulti e bambini, caratterizzata come sempre dall’alto valore formativo.
Siamo certe che comprenderete la nostra scelta e che ci sosterrete in questa nuova direzione!

Francesca e Margherita