Il male, il Circeo

Ho visto un film che mi ha accoppato. Letteralmente. Forse perché ho un figlio e una figlia, forse perché sono una donna, forse per tutte e due le cose. Si tratta di un film doveroso, che forse arriva in ritardo. Ci voleva, che qualcuno raccontasse a chi è nato dopo e non ne ha mai sentito parlare cosa successe in quella notte spaventosa del 1975. Ci voleva, che qualcuno mostrasse cosa può succedere quando si accetta un passaggio da uno sconosciuto, anche se quello sconosciuto ha il volto perbene e le maniere gentili di uno studente universitario di buona famiglia. Come poi il film ci riesca o non ci riesca, e da quale opinabile punto di vista il regista osservi i fatti, attiene a un giudizio che non spetta a me formulare.

La scuola cattolica” di Stefano Mordini, tratto dal romanzo autobiografico di Edoardo Albinati, racconta il massacro del Circeo: 36 ore di orrore al termine delle quali una ragazza morì e un’altra sopravvisse a stento. Rosaria Lopez e Donatella Colasanti, un giorno di fine estate, conobbero un ragazzo e gli diedero il proprio numero di telefono; lui, estraneo ai fatti di sangue che poi seguirono, lo passò a Angelo Izzo e Gianni Guido, le due anime nere che progettarono e misero in atto il massacro. Lunedì 29 settembre 1975 portarono le due ragazze nella villa al mare di un loro amico, Andrea Ghira, che dopo qualche ora li raggiungerà; e lì le tennero prigioniere per un giorno e mezzo, abusando ripetutamente e a turno di loro. Le torturarono, le drogarono per tenerle docili e alla fine annegarono Rosaria in una vasca da bagno. Donatella invece fu presa a calci e pugni, strozzata con una cintura, colpita con una spranga; ma non voleva morire, quella stronza, così sentì dire a uno dei due mentre la picchiavano. Però ebbe l’intuizione di fingersi tale, e si salvò. Quando le due ragazze furono chiuse nel portabagagli dell’auto di Guido, avvolte in una coperta, lei non mosse un muscolo, non emise un fiato. E mentre i due aguzzini erano non lontano nel quartiere lei iniziò a picchiare colpi alle pareti dell’auto, e fu così che un metronotte che passava di lì la sentì e la liberò. C’era anche un fotografo che soffriva di insonnia, nei pressi, e fu lui che consegnò alla cronaca e alla storia le immagini del suo volto tumefatto e allucinato mentre la aiutano a uscire. Izzo e Guido furono arrestati poco dopo; Ghira fuggì, si diede un falso nome, si arruolò nella Legione Straniera spagnola, il Tercio, sotto falso nome; forse qualche volta tornò a Roma, forse no. Diventò un fantasma, che di sicuro tormentò le notti di Colasanti negli anni a venire. Non si riprese mai del tutto dagli eventi di quella notte, secondo chi l’ha conosciuta, e non ha mai smesso di lottare per avere giustizia.

Gli assassini del Circeo non hanno mai mostrato un vero pentimento per il loro gesto, e negli anni successivi sono stati protagonisti di altri fatti criminali: due evasioni per Guido, due omicidi per Izzo, che oggi è un vecchio bolso e malandato che dal carcere, fortunatamente, non uscirà mai più. Gli occhi tradiscono ancora follia e malvagità; ma ha perso tutto di quel fascino un po’ sporco, da ragazzo ribelle ma con le spalle coperte dalla ricchezza e dalla posizione sociale della sua famiglia, che trasse così facilmente in inganno le due ragazze.

Forse un’altra cosa gli è rimasta: l’odio di classe e di genere che rovesciò addosso alle sue vittime: erano due ragazze di un quartiere di periferia, una barista e una studentessa, aspiranti attrici o modelle che sognavano una vita diversa e l’incontro con un principe azzurro, magari dei Parioli, mentre sfogliavano fotoromanzi. Furono trattate col disprezzo che i ricchi riservano agli oggetti che li hanno stancati: due bambole rotte, due “pezzi di carne” di cui disfarsi, ma non prima di essere andati a mangiare una pizza, scherzando sul gesto appena compiuto come se si trattasse di un’impresa eroica.

È questo l’aspetto della vicenda che fa più male: il disprezzo che si legge nei loro volti e nelle loro parole, fedelmente ricostruito grazie ai verbali del processo e alle foto d’epoca. È lo specchio dell’Italia di quegli anni, in cui l’odio di classe si nutriva della nostalgia per ideologie ormai morte e sepolte, e in cui l’onda lunga del Sessantotto pareva non aver minimamente cancellato una cultura ancora misogina e patriarcale. Fu per questo che le femministe insorsero e pretesero che la legge fosse riscritta: dopo i fatti del Circeo lo stupro da reato contro la morale pubblica divenne, ma solo dopo un lungo iter parlamentare, un reato contro la persona.

Ma questo non bastò a restituire la pace a Donatella Colasanti. 

Che forse, in fondo, da quel portabagagli scuro e spaventoso non è mai davvero uscita.

Stefania Berti

Cambiare

Sì, abbiamo ragione a schifarci del video di Grillo. Per le parole, il modo e anche la superficialità
È un padre che se condannano il proprio figlio dovrà fare i conti con se stesso, prima che con la legge. 
Perché, se tutto venisse confermato, sarà un padre che non ha insegnato abbastanza i concetti di rispetto, del senso del limite e della differenza
Non riesco ancora a rassegnarmi a chi urla questa inaccettabile cantilena sulle vittime, che denunciano troppo tardi o troppo presto, di quelle che non appaiono abbastanza scosse o troppo, di quelle che sapevano a cosa andavano incontro e quindi recitano, di quelle che non hanno una buona fama o di quelle che ce l’hanno troppo buona e quindi è falsa.
Mi continuo d’altronde a stupire del fatto che ci accorgiamo di tutto questo quando c’è qualcuno che urla questa triste realtà. Quando non possiamo fare a meno di ascoltarla, fra commenti e opinioni spesso di bassa lega.
L’occhio sulla vittima, sempre.
Grillo ha fatto un video sottolineando che il giorno dopo la ragazza che ha denunciato i quattro giovani, tra cui il figlio, con l’accusa di violenza di gruppo, sia andata a fare kite surf. Quindi questo “minimizzava” il concetto di violenza.
Abbiamo avuto una nota carica istituzionale che riceveva minorenni nella sua villa per fare festini. Si è parlato (o meglio, straparlato) di “carne fresca” a disposizione di maschi facoltosi che pagavano profumatamente le ragazze. Eppure se si tratta di minorenni, si tratta di violenza.
Abbiamo assistito alle testimonianze contro Weinstein, accuse che hanno generato il movimento femminista metoo, scartando però le vittime che poco rappresentavano la parola violenza ai nostri occhi.

Non può reggere. Non possiamo più continuare, alla luce di una violenza denunciata, a guardare con sospetto la vittima cercando di rintracciare l’alibi di chi l’ha agita. Non possiamo standardizzare comportamenti legati ad una reazione personale.

Se va a fare kite surf allora che violenza è?, se viene pagata anche se è minorenne non possiamo dire che è violenza e se entra in camera di un uomo potente cosa pensava di fare?…

Invece di standardizzare la vittima, cercando un comune denominatore alla reazione, cominciamo a delineare meglio cosa significa agire violenza: se quello che è stato agito è stato fatto nel rispetto della persona, dell’età, dell’esercizio del potere, dell’etica.
 
Una volta fatto questo scopriremo che quello che ha fatto la vittima il giorno dopo, se ha ricevuto dei soldi o se abbia avuto altre relazioni ci interesserà sempre meno, perché stiamo imparando a chiamare la violenza con il suo nome, guardandola in faccia e scoprendo finalmente che la vittima la violenza la subisce, non la provoca.
 

Abbiamo bisogno di cambiare per poter creare una società migliore, magari non del tutto scevra dalla violenza, ma almeno che sia in grado di riconoscerla.

Margherita Lunati