Il male, il Circeo

Ho visto un film che mi ha accoppato. Letteralmente. Forse perché ho un figlio e una figlia, forse perché sono una donna, forse per tutte e due le cose. Si tratta di un film doveroso, che forse arriva in ritardo. Ci voleva, che qualcuno raccontasse a chi è nato dopo e non ne ha mai sentito parlare cosa successe in quella notte spaventosa del 1975. Ci voleva, che qualcuno mostrasse cosa può succedere quando si accetta un passaggio da uno sconosciuto, anche se quello sconosciuto ha il volto perbene e le maniere gentili di uno studente universitario di buona famiglia. Come poi il film ci riesca o non ci riesca, e da quale opinabile punto di vista il regista osservi i fatti, attiene a un giudizio che non spetta a me formulare.

La scuola cattolica” di Stefano Mordini, tratto dal romanzo autobiografico di Edoardo Albinati, racconta il massacro del Circeo: 36 ore di orrore al termine delle quali una ragazza morì e un’altra sopravvisse a stento. Rosaria Lopez e Donatella Colasanti, un giorno di fine estate, conobbero un ragazzo e gli diedero il proprio numero di telefono; lui, estraneo ai fatti di sangue che poi seguirono, lo passò a Angelo Izzo e Gianni Guido, le due anime nere che progettarono e misero in atto il massacro. Lunedì 29 settembre 1975 portarono le due ragazze nella villa al mare di un loro amico, Andrea Ghira, che dopo qualche ora li raggiungerà; e lì le tennero prigioniere per un giorno e mezzo, abusando ripetutamente e a turno di loro. Le torturarono, le drogarono per tenerle docili e alla fine annegarono Rosaria in una vasca da bagno. Donatella invece fu presa a calci e pugni, strozzata con una cintura, colpita con una spranga; ma non voleva morire, quella stronza, così sentì dire a uno dei due mentre la picchiavano. Però ebbe l’intuizione di fingersi tale, e si salvò. Quando le due ragazze furono chiuse nel portabagagli dell’auto di Guido, avvolte in una coperta, lei non mosse un muscolo, non emise un fiato. E mentre i due aguzzini erano non lontano nel quartiere lei iniziò a picchiare colpi alle pareti dell’auto, e fu così che un metronotte che passava di lì la sentì e la liberò. C’era anche un fotografo che soffriva di insonnia, nei pressi, e fu lui che consegnò alla cronaca e alla storia le immagini del suo volto tumefatto e allucinato mentre la aiutano a uscire. Izzo e Guido furono arrestati poco dopo; Ghira fuggì, si diede un falso nome, si arruolò nella Legione Straniera spagnola, il Tercio, sotto falso nome; forse qualche volta tornò a Roma, forse no. Diventò un fantasma, che di sicuro tormentò le notti di Colasanti negli anni a venire. Non si riprese mai del tutto dagli eventi di quella notte, secondo chi l’ha conosciuta, e non ha mai smesso di lottare per avere giustizia.

Gli assassini del Circeo non hanno mai mostrato un vero pentimento per il loro gesto, e negli anni successivi sono stati protagonisti di altri fatti criminali: due evasioni per Guido, due omicidi per Izzo, che oggi è un vecchio bolso e malandato che dal carcere, fortunatamente, non uscirà mai più. Gli occhi tradiscono ancora follia e malvagità; ma ha perso tutto di quel fascino un po’ sporco, da ragazzo ribelle ma con le spalle coperte dalla ricchezza e dalla posizione sociale della sua famiglia, che trasse così facilmente in inganno le due ragazze.

Forse un’altra cosa gli è rimasta: l’odio di classe e di genere che rovesciò addosso alle sue vittime: erano due ragazze di un quartiere di periferia, una barista e una studentessa, aspiranti attrici o modelle che sognavano una vita diversa e l’incontro con un principe azzurro, magari dei Parioli, mentre sfogliavano fotoromanzi. Furono trattate col disprezzo che i ricchi riservano agli oggetti che li hanno stancati: due bambole rotte, due “pezzi di carne” di cui disfarsi, ma non prima di essere andati a mangiare una pizza, scherzando sul gesto appena compiuto come se si trattasse di un’impresa eroica.

È questo l’aspetto della vicenda che fa più male: il disprezzo che si legge nei loro volti e nelle loro parole, fedelmente ricostruito grazie ai verbali del processo e alle foto d’epoca. È lo specchio dell’Italia di quegli anni, in cui l’odio di classe si nutriva della nostalgia per ideologie ormai morte e sepolte, e in cui l’onda lunga del Sessantotto pareva non aver minimamente cancellato una cultura ancora misogina e patriarcale. Fu per questo che le femministe insorsero e pretesero che la legge fosse riscritta: dopo i fatti del Circeo lo stupro da reato contro la morale pubblica divenne, ma solo dopo un lungo iter parlamentare, un reato contro la persona.

Ma questo non bastò a restituire la pace a Donatella Colasanti. 

Che forse, in fondo, da quel portabagagli scuro e spaventoso non è mai davvero uscita.

Stefania Berti

Il tradimento del corpo

Ho avuto la mia seconda figlia poco prima di compiere i quarant’anni, e poiché ero terrorizzata dall’idea che qualcosa potesse andare storto mi sottoposi a un esame piuttosto invasivo, la villocentesi, che avrebbe rivelato la presenza di eventuali patologie genetiche nel bambino. 

Ho ancora il ricordo di un ago molto lungo che si infilava nella mia pancia di dodici settimane, del colorito terreo di mio marito quando vide il dottore che effettuava il prelievo, e dei giorni di assoluto riposo successivi all’esame affrontati senza ansie; perché mi fidavo – forse ingenuamente – della capacità del mio organismo di subire sollecitazioni anche così pesanti. 
Chiara di anni ne aveva 42 quando anche lei rimase incinta, e mi telefonò per sapere in cosa consistesse questo esame di cui le avevo parlato e a cui molte donne avevano paura di sottoporsi. Poiché a me era andato tutto bene sminuii la questione; le dissi di andare tranquilla, che era una cosa tutto sommato semplice e indolore; le dissi di affidarsi ai dottori e di non preoccuparsi, perché solo l’1% dei casi portava alla perdita del bambino. Lei era tosta, non sarebbe certamente successo nulla.
Mi telefonò piangendo poche settimane dopo: “Sono io quell’1%”, mi disse. Il prelievo aveva causato la rottura del sacco amniotico; lei era rimasta immobile in un letto di ospedale per alcuni giorni, ma aveva continuato a perdere liquido, finché i medici non avevano più sentito il battito del cuore del suo bambino.
Rimasi scioccata perché le avevo parlato di quell’esame come di un’esperienza da affrontare con serenità, e per lei si era rivelato un incubo di cui mi sentivo responsabile, anche se vivevamo in città diverse e non l’avevo indirizzata io dallo specialista a cui si era rivolta.
Non ho più parlato con leggerezza di malattie, interventi chirurgici, cure o terapie mediche da quel giorno, sottovalutandone la portata; ho capito, troppo tardi, che i corpi possono tradirci in qualsiasi momento, anche quando sono, o sembrano, forti e sani.
 
Non conosciamo noi stessi, a volte, come potremmo consigliare un’altra persona se spesso non siamo in grado neppure di ascoltare i segnali che ci manda il nostro?
Chiara è morta ieri.
Aveva appena compiuto 49 anni, e un tumore al pancreas non le ha lasciato scampo e se l’è portata via. Si è sottoposta a un’operazione lunga e delicatissima, ma non si è più svegliata. 
A fine luglio l’ho incontrata, era la prima volta che la vedevo da quando le avevano diagnosticato il male.
Mi ha detto che non aveva praticamente mai visto il mare, questa estate, e che sarebbe andata in un posto caldo d’inverno, col compagno e quel figlio che sette anni prima, per poche settimane, aveva avuto un fratello o una sorella.
 
Chiara mi ha parlato di quell’operazione come di uno spartiacque che non vedeva l’ora di attraversare, nonostante la paura e la preoccupazione. Ho pianto anche troppo, mi ha detto: e quando ho capito che non serve a nulla piangere, perché le lacrime non ti curano, ho ricominciato a sorridere e a sperare. 
 
Questa volta sono stata io a credere con tutte le mie forze alle sue parole, e ho pensato che quell’operazione le avrebbe regalato un altro po’ della vita meravigliosa che si meritava.
Il suo ultimo messaggio prima di entrare in sala operatoria è stato: vado, lo stronco e torno. Intanto annaffiatemi i fiori.
 
Sono certa che il posto dove sei andata adesso, amica mia, ne sia pieno, e sono di quelli che non appassiscono mai.
 
Stefania Berti

La malattia e la forza

Ho fatto i conti da vicino con la malattia due sole volte nella mia vita; mia nonna, che si è spenta lentamente in un letto dopo dieci anni di Alzheimer, e mio padre, che ho perso otto anni fa a causa di un brutto male ai polmoni.

Pochi giorni fa mi è capitato di imbattermi in una foto pubblicata su un profilo social: il volto di un’amica della mia età che conosco da una decina d’anni e frequento solo al mare durante le vacanze, meno di quel che mi piacerebbe. Viviamo in città diverse, in regioni diverse, e gli inverni passano senza che ci vediamo o sentiamo, se non per brevi messaggi.

Nella foto, Chiara – ma uso un nome di fantasia – aveva un sorriso bellissimo, uno sguardo obliquo e un taglio di capelli molto corto. Un taglio che non prometteva nulla di buono. Ho scoperto pochi giorni dopo che si è ammalata lo scorso anno ed è in attesa dell’intervento risolutivo; si trova su quel crinale sottile tra speranza e disperazione che percorre faticosamente, un passo alla volta, chi si ammala di tumore. Ne parla, ormai, con incredibile naturalezza; esce poco, perché è sempre debole, lei che in estate si trasformava in una creatura marina e viveva all’aperto.

Ho pensato a quanta intollerabile violenza nasconda una malattia come il cancro. Che si presenta all’improvviso come un ospite indesiderato, mette radici in luoghi dove non è gradito, e comincia a dettare legge. Diventa padrone della nostra vita e la condiziona, costringendo a adeguare orari e abitudini alle sue capricciose istanze, come in un rapporto disfunzionale in cui il malato è la vittima e il male il persecutore.

Ho pensato a quanta forza ci voglia per non abbandonarsi al panico quando si vede il proprio aspetto cambiare a causa delle chemioterapie. I capelli sono fin dagli albori della storia qualcosa che dice molto sull’identità femminile; le fanciulle egizie li curavano con oli e balsami, le matrone romane li portavano in elaborate acconciature, le streghe e le prostitute nel Medioevo sciolti e selvaggi come il loro carattere. E alle collaborazioniste li tagliavano per umiliarle, e per renderle riconoscibili da lontano. Così chiunque poteva sputar loro addosso e oltraggiarle senza timore di uno scambio di persona.

Chiara mi ha confessato che quando hanno iniziato a cadere è stato forse il momento più scioccante in questo lungo anno di calvario, e allora ha deciso di tagliarli come atto di ribellione.
Un modo per gridare più forte del suo male, affinché non abbia lui l’ultima parola.

La conosco come persona combattiva, ma anche le persone combattive a volte attraversano momenti di sconforto, e vorrebbero arrendersi. Spero che non lo faccia. E spero che il prossimo anno rivedrò la sua bella chioma bionda mossa dal maestrale della sua Liguria, che avrà spazzato via il ricordo di un’estate che in fondo non c’è stata.

Stefania Berti

Luana e Saman

Luana e Saman: sono due nomi femminili dal timbro dolce che abbiamo sentito ricordare spesso, nelle ultime settimane, purtroppo per vicende che di dolce non hanno proprio nulla.
Due ragazze giovanissime accomunate da un destino tragico: la morte se le è portate via troppo presto, e forse, in entrambi i casi ma per motivi diversi, si sarebbe potuto evitare che succedesse. La prima è morta in un incidente sul lavoro in un’azienda tessile di Montemurlo, perché i meccanismi di sicurezza che avrebbero dovuto bloccare un macchinario quando lei c’è finita contro non hanno funzionato. Della seconda si sono perse le tracce da aprile, ma gli inquirenti la danno ormai per morta e ne cercano i resti nei campi di Novellara, la cittadina emiliana dove viveva con la famiglia, di origine pakistana, e da dove era fuggita per sottrarsi a un matrimonio combinato.

Queste due storie non hanno apparentemente nulla in comune, se non la giovanissima età delle vittime – 22 anni Luana, 18 Saman – e la fine violenta a cui sono andate incontro.

Eppure un filo conduttore a me pare che ci sia: nel modo in cui i media hanno trattato le loro storie, dando un rilievo particolare alla loro bellezza.

Di Luana sono stati saccheggiati i profili social: ci è stata mostrata in posa, coi capelli su, coi capelli sciolti, bionda, mora, sorridente, imbronciata. Una ragazza bellissima, che in certe foto sembrava ancora una bambina, diventata madre molto giovane. Nei primi giorni dopo la sua morte alcuni giornali scrivevano che avesse una figlia, altri un figlio. La sensazione è che poco importasse, in fondo: maschio o femmina, la notizia aggiungeva dramma al dramma, e Luana ne era la protagonista ideale. Per questo la sua morte, ha scritto qualcuno, ha avuto più risalto di altre morti bianche, che di fatto nel nostro paese crescono a un ritmo che fa paura: sono state 1270 nel 2020, e già più di 300 quest’anno, quasi il 10% in più rispetto allo stesso periodo dell’anno prima.

Per Saman l’operazione è stata diversa, se possibile ancora più ambigua; ci è stato mostrato un prima e un dopo. Una ragazza con il velo, gli occhiali spessi, senza un filo di trucco e con l’espressione antica delle donne islamiche; e poi una giovane completamente diversa, col rossetto rosso, le sopracciglia depilate, i capelli ora mossi ora lisci, una fascia di stoffa in testa, la voglia di liberarsi dai condizionamenti e dalle imposizioni famigliari anche e soprattutto attraverso la sua trasformazione fisica.

Ho trovato sgradevole l’uso che si è fatto di quelle immagini. Era come se volessero dirmi: ecco, Saman è stata uccisa perché era diventata bella. L’anatroccolo si era trasformato in cigno, e il cigno doveva morire. Come se, di nuovo, la morte di una ragazza bella avesse un peso specifico maggiore. Come se dovessimo ricordarci di lei per come era diventata quando aveva scelto di vivere all’occidentale. Dissero esattamente l’opposto di Silvia Romano, quando tornò a casa dopo la sua liberazione, e si mostrò al mondo velata, perché nei lunghi mesi della sua prigionia si era convertita. Dissero che era diventata brutta.

Stefania Berti

Quando parliamo di femminismo, di cosa parliamo?

I tempi attuali hanno bisogno di inglobare più cose, più persone, più ruoli.
Non possiamo più permetterci che sia solo l’argomento di alcune donne, secondo moltɜ più “emancipate” di altre. Non sarebbe corretto, finanche riduttivo. Non sarebbe corretto che fosse appannaggio esclusivo di donne bianche benestanti, che comunque vivono una posizione di “privilegio”.
 
Il femminismo oggi ha bisogno esso stesso di un’altra emancipazione. Quando nasceva il movimento femminista l’intento era certamente conquistare la parità. Non la parità di genere, come moltɜ confusamente continuano a raccontare, ma una parità nei DIRITTI, diritti economici, sociali, politici e nei rapporti sociali. Noi non siamo uomini e non vorremmo neppure esserlo.
Quindi, poco c’entra il desiderare di farsi aprire una portiera o decidere di accettare l’offerta di una cena. 
Il femminismo è oggi in molti casi icona delle donne che vogliono affermarsi, che desiderano fare carriera, che hanno voglia di scalare le vette di un successo professionale. Di donne che affermano a gran voce di non volere figli. E rivendicano a ragione questo diritto.
 
Ci siamo invece forse dimenticatɜ delle donne che, contrariamente e volontariamente, vogliono dedicarsi alla propria famiglia, ai propri figli e alla propria casa. Ci siamo  scordatɜ di essere democraticɜ con quelle che i diritti spesso se li sudano anche di più.
 
 
Il grande equivoco storico è infatti pensare che la donna che sta a casa non lavora. Equivoco avvalorato da uno Stato che, nello stato di famiglia, la ritiene “a carico” del coniuge. Insomma “becca e bastonata” (come si dice in Toscana). 
Quando pensiamo a lavoro “non pagato” ci vengono in mente quelle forme illegali di lavoro in nero oppure quelle legate a retribuzioni sottovalutate. Difficilmente vengono in mente tutte quelle mansioni che in casa, se si vuole vivere con un minimo di pulizia e decoro, siamo “obbligatɜ” a fare. Pulire la cucina, lavare i pavimenti, stirare, mettere in ordine, pulire i bagni sono tutti lavori che nessuno paga. E di solito chi li fa? Una donna. 
 
E’ vero che le donne sono state le prime a pagare il prezzo della crisi dovuta alla pandemia: alcune hanno dovuto lasciare il lavoro, altre non lo trovano o hanno smesso di cercarlo. Molte lavorano da casa prendendosi cura di famiglia e dell’abitazione. C’è anche, però, chi decide di stare a casa per scelta personale e deve fare i conti con ɜ propriɜ compagnɜ, con lo Stato e spesso con le compagne di genere. Sono donne che spesso non hanno il minimo riconoscimento sociale e questo crea un senso di invisibilità e inutilità che mina l’orgoglio personale e l’appartenenza a una comunità.
Non sono donne meno emancipate o mantenute o pigre. Sono donne che hanno fatto un’altra scelta che prima di tutto dovremmo imparare a rispettare. 
Crediamo che questo, per citare la scrittrice Michela Murgia, sia un’altra eredità del patriarcato da cui dovremo liberarci a breve.
 
Rivendicare il diritto di sentirsi femministe E casalinghe.
 
Voi cosa ne pensate?
 
Margherita Lunati e Francesca Brunetti 

Non mi è mai piaciuto il termine “femminicidio”

Ci sento dentro quel “femmina” che non mi convince, perché mi fa venire in mente gli animali, e tutte le volte in cui abbiamo sentito usare quella stessa parola in senso dispregiativo (“ti comporti da femmina”), o per alludere a atteggiamenti percepiti in qualche modo come sbagliati (“sei effemminato”, “sei una femminuccia”). Le parole sono importanti, feriscono più che le spade, dice una frase di cui si è perduta la paternità; e capisco che “donnicidio” suonerebbe anche peggio, ma la questione è un’altra.

La questione è che si è reso necessario coniare una nuova parola quando gli omicidi di vittime di sesso femminile sono diventati così numerosi da doverli inserire in una sorta di categoria a sé. Non si trattava più soltanto di omicidi, ma di gesti di violenza perpetrati per precisi motivi di genere: una vittima cade sotto un coltello o un colpo di pistola perché donna. Perché un suo comportamento induce qualcuno – che si tratti di un compagno, un fratello, un padre, un datore di lavoro, o semplicemente uno sconosciuto – a sentirsi in diritto di toglierle la vita.

Foto di Silvestri Matteo su Unsplash

Se si guarda alla storia recente c’è un solco insanguinato, prima del quale il termine femminicidio (o femicide, il gemello inglese da cui si è diffuso piano piano nelle altre lingue) compariva soltanto negli studi universitari di matrice femminista, e certo non fra le notizie di apertura dei telegiornali. Quel solco è il 1993: l’anno in cui hanno inizio gli omicidi di Ciudad Juarez, la città al confine tra Messico e Texas in cui cominciano a sparire le operaie delle maquiladoras, le fabbriche di proprietà statunitense che danno lavoro a migliaia di messicani poveri in un regime di sfruttamento.

Non esistono dati precisi, perché le autorità locali tendono a nascondere molti crimini riconducibili al narcotraffico, ma si parla di più di tremila vittime, molte delle quali hanno subito una sorte orribile: violentate, fatte a pezzi e ritrovate nelle aree desertiche ai margini della città. Oppure sparite senza lasciare traccia: di loro restano solo le tante croci rosa erette dalle loro madri per ricordare che lì sono vissute e lì hanno trovato la morte, per mano di assassini che spesso restano impuniti.

La loro storia è giunta fino a noi: nel nome che ne ha definito il crimine, femminicidio appunto, e nell’opera di un’artista messicana che le ha celebrate. L’istallazione Zapatos rojos di Elina Chauvet dal 2009 riunisce e porta in giro nelle città del mondo centinaia di scarpe femminili disposte a formare una marcia silenziosa e accusatrice, il cammino che le migliaia di donne uccise a cui l’opera è dedicata non faranno mai più in questo mondo. Sono tutte rosse, come il colore della passione e del sangue, che la letteratura di ogni epoca ha troppo spesso unito in un nodo inestricabile, considerando le donne responsabili della prima e quindi meritevoli del secondo.

Come la Francesca da Rimini celebrata da Dante nel canto V dell’Inferno, uccisa con l’amante, Paolo, dal marito violento che li sorprende insieme. Sono peccatori che “la ragion sommettono al talento”, cioè al desiderio.
Un desiderio inammissibile, proibito, ancorché genuino. La perdita della razionalità li conduce all’errore, e quindi alla dannazione eterna.

La colpa di quell’errore, e in fondo di qualunque altro errore, è sempre ricaduta sulle donne. E sono migliaia di anni che le donne ne pagano le conseguenze. Negli atti, e persino attraverso le parole.

Stefania Berti

Cambiare

Sì, abbiamo ragione a schifarci del video di Grillo. Per le parole, il modo e anche la superficialità
È un padre che se condannano il proprio figlio dovrà fare i conti con se stesso, prima che con la legge. 
Perché, se tutto venisse confermato, sarà un padre che non ha insegnato abbastanza i concetti di rispetto, del senso del limite e della differenza
Non riesco ancora a rassegnarmi a chi urla questa inaccettabile cantilena sulle vittime, che denunciano troppo tardi o troppo presto, di quelle che non appaiono abbastanza scosse o troppo, di quelle che sapevano a cosa andavano incontro e quindi recitano, di quelle che non hanno una buona fama o di quelle che ce l’hanno troppo buona e quindi è falsa.
Mi continuo d’altronde a stupire del fatto che ci accorgiamo di tutto questo quando c’è qualcuno che urla questa triste realtà. Quando non possiamo fare a meno di ascoltarla, fra commenti e opinioni spesso di bassa lega.
L’occhio sulla vittima, sempre.
Grillo ha fatto un video sottolineando che il giorno dopo la ragazza che ha denunciato i quattro giovani, tra cui il figlio, con l’accusa di violenza di gruppo, sia andata a fare kite surf. Quindi questo “minimizzava” il concetto di violenza.
Abbiamo avuto una nota carica istituzionale che riceveva minorenni nella sua villa per fare festini. Si è parlato (o meglio, straparlato) di “carne fresca” a disposizione di maschi facoltosi che pagavano profumatamente le ragazze. Eppure se si tratta di minorenni, si tratta di violenza.
Abbiamo assistito alle testimonianze contro Weinstein, accuse che hanno generato il movimento femminista metoo, scartando però le vittime che poco rappresentavano la parola violenza ai nostri occhi.

Non può reggere. Non possiamo più continuare, alla luce di una violenza denunciata, a guardare con sospetto la vittima cercando di rintracciare l’alibi di chi l’ha agita. Non possiamo standardizzare comportamenti legati ad una reazione personale.

Se va a fare kite surf allora che violenza è?, se viene pagata anche se è minorenne non possiamo dire che è violenza e se entra in camera di un uomo potente cosa pensava di fare?…

Invece di standardizzare la vittima, cercando un comune denominatore alla reazione, cominciamo a delineare meglio cosa significa agire violenza: se quello che è stato agito è stato fatto nel rispetto della persona, dell’età, dell’esercizio del potere, dell’etica.
 
Una volta fatto questo scopriremo che quello che ha fatto la vittima il giorno dopo, se ha ricevuto dei soldi o se abbia avuto altre relazioni ci interesserà sempre meno, perché stiamo imparando a chiamare la violenza con il suo nome, guardandola in faccia e scoprendo finalmente che la vittima la violenza la subisce, non la provoca.
 

Abbiamo bisogno di cambiare per poter creare una società migliore, magari non del tutto scevra dalla violenza, ma almeno che sia in grado di riconoscerla.

Margherita Lunati

Donne e STE(A)M

La matematica e le materie scientifiche non mi sono mai piaciute. Sono stata “iniziata” fin da piccola alla lettura e alla scrittura, mi sono appassionata di arte, storia, latino. Nessuno nella mia famiglia, tranne forse mio padre, ha mai capito molto bene le regole della matematica né lo ha mai voluto particolarmente.

Mia figlia ha quasi 4 anni, le piacciono molto i libri illustrati e gli animali, ha una grandissima fantasia, inventa storie mirabolanti, personaggi curiosi e linguaggi a me incomprensibili. Sto cercando di farle vedere un po’ di tutto, tra cartoni, libri e il mondo reale (pandemia a parte, purtroppo). Le ho preso dei libri che parlano di scienza, ovviamente adeguati alla sua età: si è incuriosita, mi chiede del corpo umano, di come siamo fattǝ, vuole fare degli esperimenti con piccole cose che abbiamo in casa. Io all’inizio mi sforzavo (lo facevo per lei e basta) perché lo pensavo un ambito privo di grandi attrattive per me, ma in realtà mi sono incuriosita: alla fine capire un po’ di “come” e di “perché” di quella che è la nostra quotidianità è stimolante. Tutto ciò a riprova (se mai ce ne fosse bisogno) di quanto il contesto sociale e culturale in cui nasci e cresci ti possa influenzare e influenzi le tue scelte di vita e financo le tue passioni. Ritorno alla mia affermazione iniziale: le materie scientifiche non mi sono mai piaciute o non mi sono piaciute perché nessuno me le ha mai presentate in modo da suscitare il mio interesse (come è stato con la lettura e la scrittura) e perché mi sono appassionata ad altre cose che mi è capitato di incontrare prima?

In un mondo ideale, vorrei che mia figlia potesse scegliere libera da condizionamenti. Quelli che le possiamo, anche se involontariamente, imporre io o altri in famiglia, quelli che le imporrà la società con cui verrà a contatto (persone, ambienti, …). Alla fine spero che faccia quello che le piace davvero. E mi auguro che mai pensi di essere meno brillante o intelligente di un suo coetaneo maschio (uno studio del 2017 ha rilevato che bimbe dai 6/7 anni fanno fatica ad attribuire al loro stesso genere caratteristiche come l’essere brillante, mentre fino ai 5 anni non si notano differenze tra maschi e femmine).

Al di là delle mie considerazioni personali, comunque è evidente che esista un gender gap rilevante nelle materie STEM (acronimo inglese che indica scienze, tecnologia, ingegneria e matematica).

Nel mondo meno di 4 laureate su 10 nelle materie STEM sono donne (fonte The World Bank). In Italia, solo il 18% delle ragazze segue corsi STEM e le stesse non ottengono i medesimi risultati degli uomini nel mondo del lavoro (fonte Almalaurea). Perché esiste questo divario? Le ragazze sono meno portate per le materie scientifiche oppure preferiscono materie come l’italiano o la storia? Magari dipende da ragioni genetiche di differenze tra uomini e donne?

Photo by Priscilla Du Preez on Unsplash

Anche se in passato la ricerca scientifica ha provato ad argomentare che le donne sono più adatte a prendersi cura della famiglia e sono dotate di più grande empatia, mentre gli uomini eccellono nelle attività che richiedono ragionamento logico e spaziale, in realtà non è affatto così (per chi è interessatǝ, un articolo della Harvard Business Review qui). In realtà, in alcuni paesi il divario non esiste o è a favore delle ragazze (quindi non dipende da fattori genetici) e questo divario è inferiore in quei paesi dove si registra una maggiore uguaglianza di genere.

Inferiori di Angela Saini
Per chi vuole approfondire il tema, consiglio un libro molto interessante, Inferiori di Angela Saini, giornalista scientifica laureata a Oxford. Saini parte dal presupposto che abbiamo fiducia nel fatto che gli scienziati ci forniscano dati oggettivi e che la scienza ci proponga una storia senza pregiudizi. Quando si tratta delle donne, però, in gran parte non è così: le donne sono state poco rappresentate nella scienza perché nel corso della storia sono state considerate inferiori dal punto di vista intellettivo e quindi escluse. Perfino da Darwin, uomo del suo tempo, che riteneva le donne non solo inferiori per natura, ma anche meglio collocate in una vita all’interno delle mura domestiche. Ciò fece giustamente indignare Caroline Kennard, che aveva un ruolo importante nel movimento femminile di Boston e interessata alla scienza. Kennard rispose a Darwin “per favore, fate prima in modo che l’ambiente delle donne sia simile a quello degli uomini e che abbiano le stesse opportunità, e poi potrete giudicare con equità se sono inferiori all’uomo dal punto di vista intellettivo”.

Il libro di Saini è un lavoro basato su prove fondate e mette in discussione l’idea della donna come essere sottomesso, debole e poco incline alla scienza. Un insieme di ricerche scientifiche che afferma l’importanza dell’uguaglianza tra i sessi. Quando si parla di uomini e donne spesso si corre a ricercare differenze, seguendo una logica binaria che però si può rilevare infruttuosa. Perché invece non pensare a un terreno comune per una maggiore vicinanza tra le persone e dunque per una società più equa?

Didattica sperimentale
C’è stato un interessante progetto di didattica sperimentale (se ne dovrebbero sicuramente fare molti di più) in 25 scuole primarie della provincia di Torino, Affrontare il divario di genere in matematica in Piemonte.

La metodologia di insegnamento ha riguardato attività laboratoriali in cui è stata stimolata la discussione, la condivisione di idee e l’interazione, cercando di ridurre la pressione sulla competitività. Questo metodo ha avuto un impatto positivo sul rendimento scolastico in matematica delle bambine, portando a una riduzione del divario di genere tra il 29,5% e il 46,2%, senza determinare cambiamenti nella performance dei bambini. Questo ci dice che le metodologie didattiche utilizzate hanno un ruolo importante nella riduzione del divario di genere in matematica.

Progetti di questo tipo mettono in evidenza come il divario di genere sia molto legato alle pratiche sociali e discorsive che contraddistinguono le culture e che poi anche le Istituzioni applicano. Se insegnanti, famiglie e società continuano a trasmettere stereotipi di genere legati al fatto che le donne non sono portate per le materie scientifiche, le ragazze si sentiranno meno brave e continueranno a essere meno brave in queste materie. 
Gli stereotipi di cui sono portatori gli adulti si riflettono, quindi, sui bambini e sulle bambine.

Formazione
Nella formazione di nuove figure professionali sta emergendo la necessità di promuovere competenze trasversali che riescano a connettere competenze scientifico-tecnologiche a competenze umanistico-relazionali: da qui l’introduzione della A (Arts) nell’acronimo STEM. Secondo l’Osservatorio Competenze digitali 2020 realizzato da Aica, Anitec-Assinform, Assintel e Assinter-Italia, tra i profili professionali emergenti la componente di competenze digitali è del 43%, seguita dalle soft skills (37,8%) e da altre competenze non digitali (19,2%).

E voi, che rapporto avete con il digitale e le materie scientifiche?

Francesca Brunetti

La violenza non è un problema solo delle donne

Ero stata a una cena con degli amici in centro a Bologna. Non mi avevano potuto riaccompagnare a casa, non avevo la macchina né tantomeno i soldi per il taxi. La casa che avevo in affitto era relativamente vicina e allora sono andata a piedi. Erano le 23.30 circa. La strada che dovevo percorrere era sotto i portici bolognesi, tutta dritta, ma buia. Avevo paura e ho chiamato una mia amica, chiedendole di rimanere al telefono con me finché non fossi arrivata a casa. In una mano avevo il telefono, nell’altra le chiavi di casa tenute a mo’ di tirapugni. Camminavo spedita, attenta a ogni minimo movimento o rumore intorno a me. A un certo punto, con la coda dell’occhio sinistro in una rientranza della via noto un uomo in ginocchio, acquattato: i miei sensi si acuiscono, mi viene un brivido lungo la schiena. Si stava masturbando. Ho messo le ali ai piedi e sono volata verso casa. Per fortuna non mi ha seguita.

Questa è una scena che nel corso della mia vita si è ripetuta in varie forme e in diversi contesti con un unico tema di fondo: una paura assurda. Paura che qualche uomo potesse fermarmi, seguirmi, rapinarmi, violentarmi. Sono cresciuta con mille raccomandazioni da parte di tutti: non tornare a casa da sola di notte, non ti vestire in modo provocante, cammina a testa bassa, non rispondere se qualcuno ti apostrofa per strada, portati dietro un ombrello, le chiavi di casa, qualsiasi cosa che possa servire da deterrente o da “arma” contro un possibile aggressore. Se cammino in una strada da sola e vedo venirmi incontro un uomo, in automatico cambio lato e mi metto su quello opposto.

Queste sono scene che si ripetono quotidianamente nella vita delle donne. E anche se diciamo “ho tutto il diritto di camminare da sola di notte”, elaboriamo comunque delle strategie di sicurezza. Noi.

Il caso di Sarah Everard mi ha lasciata interdetta. Sarah stava tornando a casa la sera del 3 marzo ed è stata rapita nella parte meridionale di Londra. Il 10 marzo sono stati ritrovati i suoi resti in un bosco del Kent, a 78 km da dove era stata vista l’ultima volta. Ad oggi è accusato del suo rapimento e omicidio un poliziotto di Scotland Yard.

Che ha fatto di male questa ragazza? Ha camminato. Punto.
Ed è vero: Sarah potevo essere io. Sarah siamo tutte noi.
E io sono stanca che questo sia un nostro problema. Sono stanca di avere paura. Sono stanca di dover essere io a coprirmi, a preoccuparmi, a dover stare in casa, a tornare presto, a camminare a testa bassa.

Nel 2019 l’ISTAT ha condotto l’indagine “Gli stereotipi sui ruoli di genere e l’immagine sociale della violenza sessuale”. E indoviniamo un po’? E’ emerso che il 24% degli italiani pensa che le donne possano provocare la violenza sessuale con il loro modo di vestire. Quasi il 40% pensa che se una donna lo vuole davvero, può sottrarsi a un rapporto non consensuale. Il 15% crede che se una donna subisce uno stupro mentre è ubriaca o drogata sia in parte responsabile.

Il problema della violenza è culturale. E’ sistemico. Riguarda dinamiche di potere, sopraffazione e prevaricazione che sono talmente insite nella nostra società che è difficilissimo discostarsene. O anche solo prenderne atto.

Come si fa a cambiare le cose? Come si fa ad avviare un cambiamento culturale dal basso? Io non ho una soluzione, oggi ho solo molto sconforto.

Francesca

Il nostro 8 marzo

Non ho più “festeggiato” la festa della donna dai tempi del liceo. Quei tempi, intrisi di ingenuo entusiasmo ci rammentavano la nostra spensieratezza e bellezza. L’8 marzo ci suggeriva che la festa era per noi perché ci sentissimo orgogliose e fiere di essere donne o, nello specifico, di diventarlo. 

E poco male se alla fine l’unica cosa che riuscivamo a fare era la “classica” cena modello goliardia maschile. Oggi a quasi cinquant’anni mi diverte ricordare quella sciocca allegria come un’apertura al mondo, apertura alla possibilità di diventare una donna. Forse ci sembrava fin troppo facile e non eravamo pronte a questo mondo, sebbene un assaggio arrivò proprio quella sera.

Con le amiche, la cena, domani sera, la festa della donna, cosa ti metti, cosa mi metto, ma i tuoi ti fanno venire?, si poi però vengono a riprendermi, ho capito, qualcosa non va?, è che M. non vuole che venga perché dice che sembriamo tutte troie, e anche se lo fossimo?, lui non vuole che lo sembri né che lo sia, ma dai! Non dargli retta, non so, dai, va bene ma torniamo presto.

Al ristorante fummo certamente sguaiate. Ho ricordi lontani, ma sono certa che fra una pizza e una birra le risate furono alte e rumorose. Ma alla fine non eravamo lì per quello? La nostra sempliciona interpretazione della festa era celebrarci e quel modo di farlo, così dolorosamente maschile, era la strada per far sapere che quel giorno era lì per noi. Nel bel mezzo di una delle tante risate arrivò M. e si portò via la nostra amica. Senza scuse o imbarazzi, glielo chiese e lei, lasciando la sua quota per la pizza sul tavolo, si alzò e se ne andò. Restammo tutte di stucco, ma nessuna, nemmeno io, prese le sue difese. Tutte giudicammo il comportamento di lei senza guardare o riflettere su quello che aveva fatto lui. Tutte, nella stessa situazione, avremmo senz’altro saputo far meglio. Ci saremmo alzate, certo, ma per mandarlo al diavolo! Sì, ma figurati se io mi metto con uno che non mi fa uscire! Beata gioventù.

Continuammo le nostre risate, continuammo la nostra scapigliata serata all’insegna di quello che credevamo fosse emancipazione.

Nel farmi tornare alla luce un ricordo così lontano, ho anche rivisto la mia vita in questo scorrere del tempo. E come è cambiato per me quello che l’8 marzo rappresentava e rappresenta.

Il tempo mi ha regalato consapevolezza nei riguardi del femminile e questa consapevolezza ha trasformato la mia vita, senz’altro in meglio. Mi sono battuta per il femminile e posso tranquillamente definirmi femminista. Ma non riesco ancora, nonostante i passi avanti che sono stati fatti, a pensare all’8 marzo senza rivolgere un pensiero a chi è rimasto nella ragnatela di una relazione di possesso come la mia amica, chi soffre e non sa mai se deve lasciare o restare, chi sul lavoro deve dimostrare e mostrare, chi ha pagato con la propria vita il prezzo della gabbia in cui l’avevano rinchiusa. La spietatezza di un mio lontano 8 marzo per il quale l’emancipazione era proprio l’ostentazione di una libertà chiusa nel perimetro di un ristorante, oggi è stata sostituita dall’indulgenza. Verso chi non è riuscita a trovare un conforto, ma solo giudizio. A lei che non è stata libera di essere dura, leggera, cinica, ambiziosa, troia o casalinga.

Perché alla fine se c’è l’8 marzo, ma esiste anche il 25 novembre, qualcosa ancora non va.

Margherita Lunati

Per me la “festa della donna”, fino a quando ho frequentato l’Università, è stata cena con le amiche in qualche locale dove magari ci fosse anche uno spogliarello maschile e mimosa. Risate, chiacchiere e tantissima voglia di “trasgressione”. Mi volevo prendere una mini-vacanza (una sera!) dal patriarcato, gentilmente concessa dallo stesso patriarcato capitalista e consumista (ma comunque non lo sapevo, ancora).

Quando poi ho iniziato a interessarmi di temi legati al femminismo, ho fondamentalmente iniziato a studiare e documentarmi. Io non rinnego nulla, anzi. Ero molto spensierata, dotata di una grande leggerezza che vorrei tornare ad avere più spesso di adesso. E’ solo che in questo ambito, quello del femminismo e delle lotte di genere, quando inizi a scavare un minimo, inizi anche a farti delle domande. E quando te ne fai alcune, continui. Cerchi risposte, indaghi. Scopri fatti e cose. E quando scopri, fai domande, pretendi risposte (e te le dai, anche), studi, indaghi, un po’ la visione ti cambia per forza. Una maggiore consapevolezza è inevitabile. Almeno, questo è successo a me.

Ma da dove arriva l’8 marzo? La Giornata internazionale della donna ha una storia lunga e complessa. E’ una storia politica, di rivendicazione dei diritti delle donne e di celebrazione del percorso fatto. Per farla molto breve, non si è sempre celebrata l’8 marzo e sistematicamente ogni anno.
La sua genesi è legata al clima politico che si respirava a inizio ‘900, quando la popolazione femminile cominciò a organizzarsi per rivendicare i propri diritti (in particolare il diritto al voto). Nel 1909 il Partito Socialista americano raccomandava alle sezioni locali di organizzare una manifestazione in favore del diritto di voto femminile che di fatto fu celebrata a febbraio. In alcuni paesi europei la Giornata della donna si tenne per la prima volta nel 1911. La manifestazione poi non fu ripetuta ogni anno né in ogni paese (soprattutto con lo scoppio della Prima guerra mondiale). L’8 marzo 1917 a San Pietroburgo ci fu una manifestazione delle donne che rivendicava la fine della guerra e questa giornata è rimasta nella storia a indicare l’inizio della Rivoluzione russa di febbraio. Per questo motivo, si pensò a una data che potesse essere valida a livello internazionale e nel 1921 la Seconda conferenza internazionale delle donne comuniste fissò l’8 marzo come la “Giornata internazionale dell’operaia”.

E in Italia? Solo nel 1922 si iniziò a celebrare la Giornata internazionale della donna, per iniziativa del Partito comunista d’Italia (che tra l’altro la celebrò il 12 marzo). Fu solo nel 1945 che l’UDI (Unione Donne in Italia) prese l’iniziativa di celebrare la prima giornata della donna nelle zone dell’Italia libera, mentre nel 1946 si celebrò l’8 marzo in tutta Italia. La mimosa fu decisa come simbolo di questa celebrazione: un fiore povero e che fiorisce a inizio marzo, come vollero Teresa Mattei, Rita Montagnana e Teresa Noce. Tre donne della Resistenza.

Ha ancora senso l’8 marzo? Per me ha senso che converga l’attenzione dei media e della gente sulle rivendicazioni femminili, sulle ingiustizie che la metà della popolazione italiana deve ancora subire, sulle violenze di cui siamo vittime. Ha senso fare divulgazione ogni giorno su queste tematiche. Ha senso insegnare a mia figlia che nella vita può fare quello che vuole, anche se probabilmente farà molta più fatica di un suo coetaneo (a parità di stato), che non ha bisogno di uno sguardo maschile che legittimi il suo essere al mondo, che deve fare squadra con le altre donne. Ha senso continuare a studiare, informarsi, alzare la voce, rivendicare un diritto.

Quindi bella la mimosa, eh. Buoni i cioccolatini. Belle le serate a cui non si può andare in questo momento.

Vorrei che si pensasse concretamente a provvedimenti economici e politici che avessero come destinatarie le donne. Vorrei che un cambiamento culturale partisse realmente nella nostra società. 

Francesca Brunetti