Luana e Saman

Luana e Saman: sono due nomi femminili dal timbro dolce che abbiamo sentito ricordare spesso, nelle ultime settimane, purtroppo per vicende che di dolce non hanno proprio nulla.
Due ragazze giovanissime accomunate da un destino tragico: la morte se le è portate via troppo presto, e forse, in entrambi i casi ma per motivi diversi, si sarebbe potuto evitare che succedesse. La prima è morta in un incidente sul lavoro in un’azienda tessile di Montemurlo, perché i meccanismi di sicurezza che avrebbero dovuto bloccare un macchinario quando lei c’è finita contro non hanno funzionato. Della seconda si sono perse le tracce da aprile, ma gli inquirenti la danno ormai per morta e ne cercano i resti nei campi di Novellara, la cittadina emiliana dove viveva con la famiglia, di origine pakistana, e da dove era fuggita per sottrarsi a un matrimonio combinato.

Queste due storie non hanno apparentemente nulla in comune, se non la giovanissima età delle vittime – 22 anni Luana, 18 Saman – e la fine violenta a cui sono andate incontro.

Eppure un filo conduttore a me pare che ci sia: nel modo in cui i media hanno trattato le loro storie, dando un rilievo particolare alla loro bellezza.

Di Luana sono stati saccheggiati i profili social: ci è stata mostrata in posa, coi capelli su, coi capelli sciolti, bionda, mora, sorridente, imbronciata. Una ragazza bellissima, che in certe foto sembrava ancora una bambina, diventata madre molto giovane. Nei primi giorni dopo la sua morte alcuni giornali scrivevano che avesse una figlia, altri un figlio. La sensazione è che poco importasse, in fondo: maschio o femmina, la notizia aggiungeva dramma al dramma, e Luana ne era la protagonista ideale. Per questo la sua morte, ha scritto qualcuno, ha avuto più risalto di altre morti bianche, che di fatto nel nostro paese crescono a un ritmo che fa paura: sono state 1270 nel 2020, e già più di 300 quest’anno, quasi il 10% in più rispetto allo stesso periodo dell’anno prima.

Per Saman l’operazione è stata diversa, se possibile ancora più ambigua; ci è stato mostrato un prima e un dopo. Una ragazza con il velo, gli occhiali spessi, senza un filo di trucco e con l’espressione antica delle donne islamiche; e poi una giovane completamente diversa, col rossetto rosso, le sopracciglia depilate, i capelli ora mossi ora lisci, una fascia di stoffa in testa, la voglia di liberarsi dai condizionamenti e dalle imposizioni famigliari anche e soprattutto attraverso la sua trasformazione fisica.

Ho trovato sgradevole l’uso che si è fatto di quelle immagini. Era come se volessero dirmi: ecco, Saman è stata uccisa perché era diventata bella. L’anatroccolo si era trasformato in cigno, e il cigno doveva morire. Come se, di nuovo, la morte di una ragazza bella avesse un peso specifico maggiore. Come se dovessimo ricordarci di lei per come era diventata quando aveva scelto di vivere all’occidentale. Dissero esattamente l’opposto di Silvia Romano, quando tornò a casa dopo la sua liberazione, e si mostrò al mondo velata, perché nei lunghi mesi della sua prigionia si era convertita. Dissero che era diventata brutta.

Stefania Berti