La violenza non è un problema solo delle donne

Ero stata a una cena con degli amici in centro a Bologna. Non mi avevano potuto riaccompagnare a casa, non avevo la macchina né tantomeno i soldi per il taxi. La casa che avevo in affitto era relativamente vicina e allora sono andata a piedi. Erano le 23.30 circa. La strada che dovevo percorrere era sotto i portici bolognesi, tutta dritta, ma buia. Avevo paura e ho chiamato una mia amica, chiedendole di rimanere al telefono con me finché non fossi arrivata a casa. In una mano avevo il telefono, nell’altra le chiavi di casa tenute a mo’ di tirapugni. Camminavo spedita, attenta a ogni minimo movimento o rumore intorno a me. A un certo punto, con la coda dell’occhio sinistro in una rientranza della via noto un uomo in ginocchio, acquattato: i miei sensi si acuiscono, mi viene un brivido lungo la schiena. Si stava masturbando. Ho messo le ali ai piedi e sono volata verso casa. Per fortuna non mi ha seguita.

Questa è una scena che nel corso della mia vita si è ripetuta in varie forme e in diversi contesti con un unico tema di fondo: una paura assurda. Paura che qualche uomo potesse fermarmi, seguirmi, rapinarmi, violentarmi. Sono cresciuta con mille raccomandazioni da parte di tutti: non tornare a casa da sola di notte, non ti vestire in modo provocante, cammina a testa bassa, non rispondere se qualcuno ti apostrofa per strada, portati dietro un ombrello, le chiavi di casa, qualsiasi cosa che possa servire da deterrente o da “arma” contro un possibile aggressore. Se cammino in una strada da sola e vedo venirmi incontro un uomo, in automatico cambio lato e mi metto su quello opposto.

Queste sono scene che si ripetono quotidianamente nella vita delle donne. E anche se diciamo “ho tutto il diritto di camminare da sola di notte”, elaboriamo comunque delle strategie di sicurezza. Noi.

Il caso di Sarah Everard mi ha lasciata interdetta. Sarah stava tornando a casa la sera del 3 marzo ed è stata rapita nella parte meridionale di Londra. Il 10 marzo sono stati ritrovati i suoi resti in un bosco del Kent, a 78 km da dove era stata vista l’ultima volta. Ad oggi è accusato del suo rapimento e omicidio un poliziotto di Scotland Yard.

Che ha fatto di male questa ragazza? Ha camminato. Punto.
Ed è vero: Sarah potevo essere io. Sarah siamo tutte noi.
E io sono stanca che questo sia un nostro problema. Sono stanca di avere paura. Sono stanca di dover essere io a coprirmi, a preoccuparmi, a dover stare in casa, a tornare presto, a camminare a testa bassa.

Nel 2019 l’ISTAT ha condotto l’indagine “Gli stereotipi sui ruoli di genere e l’immagine sociale della violenza sessuale”. E indoviniamo un po’? E’ emerso che il 24% degli italiani pensa che le donne possano provocare la violenza sessuale con il loro modo di vestire. Quasi il 40% pensa che se una donna lo vuole davvero, può sottrarsi a un rapporto non consensuale. Il 15% crede che se una donna subisce uno stupro mentre è ubriaca o drogata sia in parte responsabile.

Il problema della violenza è culturale. E’ sistemico. Riguarda dinamiche di potere, sopraffazione e prevaricazione che sono talmente insite nella nostra società che è difficilissimo discostarsene. O anche solo prenderne atto.

Come si fa a cambiare le cose? Come si fa ad avviare un cambiamento culturale dal basso? Io non ho una soluzione, oggi ho solo molto sconforto.

Francesca

Il nostro 8 marzo

Non ho più “festeggiato” la festa della donna dai tempi del liceo. Quei tempi, intrisi di ingenuo entusiasmo ci rammentavano la nostra spensieratezza e bellezza. L’8 marzo ci suggeriva che la festa era per noi perché ci sentissimo orgogliose e fiere di essere donne o, nello specifico, di diventarlo. 

E poco male se alla fine l’unica cosa che riuscivamo a fare era la “classica” cena modello goliardia maschile. Oggi a quasi cinquant’anni mi diverte ricordare quella sciocca allegria come un’apertura al mondo, apertura alla possibilità di diventare una donna. Forse ci sembrava fin troppo facile e non eravamo pronte a questo mondo, sebbene un assaggio arrivò proprio quella sera.

Con le amiche, la cena, domani sera, la festa della donna, cosa ti metti, cosa mi metto, ma i tuoi ti fanno venire?, si poi però vengono a riprendermi, ho capito, qualcosa non va?, è che M. non vuole che venga perché dice che sembriamo tutte troie, e anche se lo fossimo?, lui non vuole che lo sembri né che lo sia, ma dai! Non dargli retta, non so, dai, va bene ma torniamo presto.

Al ristorante fummo certamente sguaiate. Ho ricordi lontani, ma sono certa che fra una pizza e una birra le risate furono alte e rumorose. Ma alla fine non eravamo lì per quello? La nostra sempliciona interpretazione della festa era celebrarci e quel modo di farlo, così dolorosamente maschile, era la strada per far sapere che quel giorno era lì per noi. Nel bel mezzo di una delle tante risate arrivò M. e si portò via la nostra amica. Senza scuse o imbarazzi, glielo chiese e lei, lasciando la sua quota per la pizza sul tavolo, si alzò e se ne andò. Restammo tutte di stucco, ma nessuna, nemmeno io, prese le sue difese. Tutte giudicammo il comportamento di lei senza guardare o riflettere su quello che aveva fatto lui. Tutte, nella stessa situazione, avremmo senz’altro saputo far meglio. Ci saremmo alzate, certo, ma per mandarlo al diavolo! Sì, ma figurati se io mi metto con uno che non mi fa uscire! Beata gioventù.

Continuammo le nostre risate, continuammo la nostra scapigliata serata all’insegna di quello che credevamo fosse emancipazione.

Nel farmi tornare alla luce un ricordo così lontano, ho anche rivisto la mia vita in questo scorrere del tempo. E come è cambiato per me quello che l’8 marzo rappresentava e rappresenta.

Il tempo mi ha regalato consapevolezza nei riguardi del femminile e questa consapevolezza ha trasformato la mia vita, senz’altro in meglio. Mi sono battuta per il femminile e posso tranquillamente definirmi femminista. Ma non riesco ancora, nonostante i passi avanti che sono stati fatti, a pensare all’8 marzo senza rivolgere un pensiero a chi è rimasto nella ragnatela di una relazione di possesso come la mia amica, chi soffre e non sa mai se deve lasciare o restare, chi sul lavoro deve dimostrare e mostrare, chi ha pagato con la propria vita il prezzo della gabbia in cui l’avevano rinchiusa. La spietatezza di un mio lontano 8 marzo per il quale l’emancipazione era proprio l’ostentazione di una libertà chiusa nel perimetro di un ristorante, oggi è stata sostituita dall’indulgenza. Verso chi non è riuscita a trovare un conforto, ma solo giudizio. A lei che non è stata libera di essere dura, leggera, cinica, ambiziosa, troia o casalinga.

Perché alla fine se c’è l’8 marzo, ma esiste anche il 25 novembre, qualcosa ancora non va.

Margherita Lunati

Per me la “festa della donna”, fino a quando ho frequentato l’Università, è stata cena con le amiche in qualche locale dove magari ci fosse anche uno spogliarello maschile e mimosa. Risate, chiacchiere e tantissima voglia di “trasgressione”. Mi volevo prendere una mini-vacanza (una sera!) dal patriarcato, gentilmente concessa dallo stesso patriarcato capitalista e consumista (ma comunque non lo sapevo, ancora).

Quando poi ho iniziato a interessarmi di temi legati al femminismo, ho fondamentalmente iniziato a studiare e documentarmi. Io non rinnego nulla, anzi. Ero molto spensierata, dotata di una grande leggerezza che vorrei tornare ad avere più spesso di adesso. E’ solo che in questo ambito, quello del femminismo e delle lotte di genere, quando inizi a scavare un minimo, inizi anche a farti delle domande. E quando te ne fai alcune, continui. Cerchi risposte, indaghi. Scopri fatti e cose. E quando scopri, fai domande, pretendi risposte (e te le dai, anche), studi, indaghi, un po’ la visione ti cambia per forza. Una maggiore consapevolezza è inevitabile. Almeno, questo è successo a me.

Ma da dove arriva l’8 marzo? La Giornata internazionale della donna ha una storia lunga e complessa. E’ una storia politica, di rivendicazione dei diritti delle donne e di celebrazione del percorso fatto. Per farla molto breve, non si è sempre celebrata l’8 marzo e sistematicamente ogni anno.
La sua genesi è legata al clima politico che si respirava a inizio ‘900, quando la popolazione femminile cominciò a organizzarsi per rivendicare i propri diritti (in particolare il diritto al voto). Nel 1909 il Partito Socialista americano raccomandava alle sezioni locali di organizzare una manifestazione in favore del diritto di voto femminile che di fatto fu celebrata a febbraio. In alcuni paesi europei la Giornata della donna si tenne per la prima volta nel 1911. La manifestazione poi non fu ripetuta ogni anno né in ogni paese (soprattutto con lo scoppio della Prima guerra mondiale). L’8 marzo 1917 a San Pietroburgo ci fu una manifestazione delle donne che rivendicava la fine della guerra e questa giornata è rimasta nella storia a indicare l’inizio della Rivoluzione russa di febbraio. Per questo motivo, si pensò a una data che potesse essere valida a livello internazionale e nel 1921 la Seconda conferenza internazionale delle donne comuniste fissò l’8 marzo come la “Giornata internazionale dell’operaia”.

E in Italia? Solo nel 1922 si iniziò a celebrare la Giornata internazionale della donna, per iniziativa del Partito comunista d’Italia (che tra l’altro la celebrò il 12 marzo). Fu solo nel 1945 che l’UDI (Unione Donne in Italia) prese l’iniziativa di celebrare la prima giornata della donna nelle zone dell’Italia libera, mentre nel 1946 si celebrò l’8 marzo in tutta Italia. La mimosa fu decisa come simbolo di questa celebrazione: un fiore povero e che fiorisce a inizio marzo, come vollero Teresa Mattei, Rita Montagnana e Teresa Noce. Tre donne della Resistenza.

Ha ancora senso l’8 marzo? Per me ha senso che converga l’attenzione dei media e della gente sulle rivendicazioni femminili, sulle ingiustizie che la metà della popolazione italiana deve ancora subire, sulle violenze di cui siamo vittime. Ha senso fare divulgazione ogni giorno su queste tematiche. Ha senso insegnare a mia figlia che nella vita può fare quello che vuole, anche se probabilmente farà molta più fatica di un suo coetaneo (a parità di stato), che non ha bisogno di uno sguardo maschile che legittimi il suo essere al mondo, che deve fare squadra con le altre donne. Ha senso continuare a studiare, informarsi, alzare la voce, rivendicare un diritto.

Quindi bella la mimosa, eh. Buoni i cioccolatini. Belle le serate a cui non si può andare in questo momento.

Vorrei che si pensasse concretamente a provvedimenti economici e politici che avessero come destinatarie le donne. Vorrei che un cambiamento culturale partisse realmente nella nostra società. 

Francesca Brunetti