Il male, il Circeo

Ho visto un film che mi ha accoppato. Letteralmente. Forse perché ho un figlio e una figlia, forse perché sono una donna, forse per tutte e due le cose. Si tratta di un film doveroso, che forse arriva in ritardo. Ci voleva, che qualcuno raccontasse a chi è nato dopo e non ne ha mai sentito parlare cosa successe in quella notte spaventosa del 1975. Ci voleva, che qualcuno mostrasse cosa può succedere quando si accetta un passaggio da uno sconosciuto, anche se quello sconosciuto ha il volto perbene e le maniere gentili di uno studente universitario di buona famiglia. Come poi il film ci riesca o non ci riesca, e da quale opinabile punto di vista il regista osservi i fatti, attiene a un giudizio che non spetta a me formulare.

La scuola cattolica” di Stefano Mordini, tratto dal romanzo autobiografico di Edoardo Albinati, racconta il massacro del Circeo: 36 ore di orrore al termine delle quali una ragazza morì e un’altra sopravvisse a stento. Rosaria Lopez e Donatella Colasanti, un giorno di fine estate, conobbero un ragazzo e gli diedero il proprio numero di telefono; lui, estraneo ai fatti di sangue che poi seguirono, lo passò a Angelo Izzo e Gianni Guido, le due anime nere che progettarono e misero in atto il massacro. Lunedì 29 settembre 1975 portarono le due ragazze nella villa al mare di un loro amico, Andrea Ghira, che dopo qualche ora li raggiungerà; e lì le tennero prigioniere per un giorno e mezzo, abusando ripetutamente e a turno di loro. Le torturarono, le drogarono per tenerle docili e alla fine annegarono Rosaria in una vasca da bagno. Donatella invece fu presa a calci e pugni, strozzata con una cintura, colpita con una spranga; ma non voleva morire, quella stronza, così sentì dire a uno dei due mentre la picchiavano. Però ebbe l’intuizione di fingersi tale, e si salvò. Quando le due ragazze furono chiuse nel portabagagli dell’auto di Guido, avvolte in una coperta, lei non mosse un muscolo, non emise un fiato. E mentre i due aguzzini erano non lontano nel quartiere lei iniziò a picchiare colpi alle pareti dell’auto, e fu così che un metronotte che passava di lì la sentì e la liberò. C’era anche un fotografo che soffriva di insonnia, nei pressi, e fu lui che consegnò alla cronaca e alla storia le immagini del suo volto tumefatto e allucinato mentre la aiutano a uscire. Izzo e Guido furono arrestati poco dopo; Ghira fuggì, si diede un falso nome, si arruolò nella Legione Straniera spagnola, il Tercio, sotto falso nome; forse qualche volta tornò a Roma, forse no. Diventò un fantasma, che di sicuro tormentò le notti di Colasanti negli anni a venire. Non si riprese mai del tutto dagli eventi di quella notte, secondo chi l’ha conosciuta, e non ha mai smesso di lottare per avere giustizia.

Gli assassini del Circeo non hanno mai mostrato un vero pentimento per il loro gesto, e negli anni successivi sono stati protagonisti di altri fatti criminali: due evasioni per Guido, due omicidi per Izzo, che oggi è un vecchio bolso e malandato che dal carcere, fortunatamente, non uscirà mai più. Gli occhi tradiscono ancora follia e malvagità; ma ha perso tutto di quel fascino un po’ sporco, da ragazzo ribelle ma con le spalle coperte dalla ricchezza e dalla posizione sociale della sua famiglia, che trasse così facilmente in inganno le due ragazze.

Forse un’altra cosa gli è rimasta: l’odio di classe e di genere che rovesciò addosso alle sue vittime: erano due ragazze di un quartiere di periferia, una barista e una studentessa, aspiranti attrici o modelle che sognavano una vita diversa e l’incontro con un principe azzurro, magari dei Parioli, mentre sfogliavano fotoromanzi. Furono trattate col disprezzo che i ricchi riservano agli oggetti che li hanno stancati: due bambole rotte, due “pezzi di carne” di cui disfarsi, ma non prima di essere andati a mangiare una pizza, scherzando sul gesto appena compiuto come se si trattasse di un’impresa eroica.

È questo l’aspetto della vicenda che fa più male: il disprezzo che si legge nei loro volti e nelle loro parole, fedelmente ricostruito grazie ai verbali del processo e alle foto d’epoca. È lo specchio dell’Italia di quegli anni, in cui l’odio di classe si nutriva della nostalgia per ideologie ormai morte e sepolte, e in cui l’onda lunga del Sessantotto pareva non aver minimamente cancellato una cultura ancora misogina e patriarcale. Fu per questo che le femministe insorsero e pretesero che la legge fosse riscritta: dopo i fatti del Circeo lo stupro da reato contro la morale pubblica divenne, ma solo dopo un lungo iter parlamentare, un reato contro la persona.

Ma questo non bastò a restituire la pace a Donatella Colasanti. 

Che forse, in fondo, da quel portabagagli scuro e spaventoso non è mai davvero uscita.

Stefania Berti

MAI Più

Non dirò il mio nome, tanto cosa potrebbe cambiare sapere se mi chiamo Lola o Laura? Nulla. Ma volevo raccontare la mia storia, quella che molte tacciono pensando sia una normalità, un destino, ma che non può essere tale. Non può.

Lo rivedo, dopo più di dieci anni. Io ero molto diversa, lui a pensarci bene, era simile al passato. A quel passato adolescenziale che trasforma i brutti in belli, i belli in bellissimi e i belli (quelli veri) in simpatici. Anche allora quello sguardo un po’ liquido mi aveva travolto, e dopo tutti quegli anni lo continuava a fare. Sorrideva incredulo, parlava e rideva con i capelli che gli gocciolavano sulla fronte, mentre uscendo dal parrucchiere lo sentii chiamare il mio nome. Fu un suono vuoto nel mio stomaco, ma un ritmo velocissimo di tamburi nelle mie orecchie.

“Come stai?”, “Bene dai e tu?”, “Bene, bene”. E ci scappa da ridere. Dovevo rientrare al lavoro, lo salutai e lui mi mise in mano un foglietto con sopra scritto la sua mail, mentre si scriveva sulla mano il mio. Salii in macchina e iniziai a guidare anche se in realtà stavo percorrendo a ritroso quello stupido periodo dell’adolescenza pensando, in modo ancora più infantile, che se l’avevo rivisto c’era un motivo, era certamente un segno del destino.

Mi scrisse e io risposi. Ci scambiammo mail per una settimana; ero contenta, elettrizzata.

La prima volta che mi chiamò (alla fine ci scambiammo anche i numeri di cellulare) fece un commento terribile sulla mia voce. 

Pensai che volesse nascondere l’imbarazzo. Ma non era così. Il suo linguaggio era spesso sprezzante, arrogante e violento. In ogni cosa. Anche quando facevamo l’amore non si scordava di essere violento. E anche se io la confondevo per passione, in realtà era solo violenza.

Non mi resi conto di come lentamente mi allontanò dalle mie amiche, dai miei amici. Diceva che voleva solo me, che il suo tempo fosse il mio, che il mio spazio fosse il suo. E tutte le sere insieme. Mi veniva a prendere al lavoro e mi portava a casa sua dove viveva solo. Il più delle volte si metteva al computer ad armanaccare con programmi di suoni e grafica chiedendomi di stare a sedere accanto a lui. Le prime volte volte mi pareva di scoprire chissà che, poi iniziai ad annoiarmi, ma non era possibile pensare di potermi allontanare. Provai a farlo una volta sola e la conseguenza fu una lite crudele. Mi disse che non lo amavo abbastanza, che ero una persona insensibile e che non conoscevo la condivisione. Un manipolatore.

Gli interessi erano i suoi e i suoi soltanto. Quello che piaceva, interessava incuriosiva me non era importante. Potevo alzarmi da quella sedia solo, nel caso mi fossi fermata per cena, per andare a preparare o se aveva voglia di fare sesso. La cosa peggiore era che io continuavo a pensare che quelle cose fossero solo il suo modo un po’ così di esprimere l’amore grande che nutriva per me.

Quando mi chiese di andare a vivere con lui ero già molto sola e travestii quella proposta nell’occasione che meritava quell’amore: un progetto per noi due. In realtà lui completò il potere che aveva già su di me. Tenni per un anno il cellulare spento perchè ogni telefonata faceva scaturire una lite su chi aveva chiamato e perchè, non importava fosse uomo o donna. L’uomo perchè era uomo, la donna perchè senz’altro mi stava dando informazioni su un eventuale incontro con un presunto amante. Non potevo fare apprezzamenti su un posto (con chi ci sei stata qui?), su un film (cosa ti ricorda? Chi ti ricorda?), una canzone (chi te l’ha fatta ascoltare?). Fantascienza.

Il mio primo schiaffo arrivò un pomeriggio che venne a casa mia. Ero passata a prendere delle cose, il cellulare era ovviamente spento e lui cominciò a chiamare sul telefono di casa. Avevo chiamato un’amica di allora, per sentirla, per provare a sentirmi una persona normale. Piombò in casa perchè aveva trovato il telefono di casa occupato per un tempo troppo lungo, sospetto. Con chi potevo aver voglia di parlare per un tempo così lungo ? Dissi che era una mia amica, come era in realtà. E di che cosa dovevamo parlare, cosa avevamo da dirci? Io pensai scherzasse. Cazzi miei, risposi. Non feci in tempo a finire la frase. Caddi sul letto, eravamo in camera mia. Ma non ebbi spazio per realizzare cosa stava succedendo che lui era già in lacrime ai miei piedi che implorava perdono. Non stavo capendo, ma questo era l’aspetto meno importante perchè quello schiaffo aprì la porta a tutto il resto. Botte e poi lacrime, ancora botte e poi fiori e cene al ristorante, poi ancora botte e violenze, ma io amo solo te perdonami. E io non riuscivo ad uscirne; era come se non trovassi mai le energie sufficienti, era come se pensassi che alla fine tutto quello me lo meritavo ed era giusto così. Quando qualcuno mi diceva lascialo!, a me sembrava che mi dicesse vola in alto nel cielo e sapendo di non essere un uccello, sapevo perfettamente che non era possibile.

In una delle tante notti in cui confondeva fare l’amore con violentare la propria compagna (come chiamare i suoi desideri sessuali uniti alla mie lacrime?), non appagato da quel sesso, cominciò a urlarmi addosso e picchiarmi. La ragione era sempre la stessa: se non mi andava di fare sesso o l’avevo fatto con qualcun’altro o non c’era altra spiegazione. Urlai, chiesi aiuto, ma non c’era nessuno a sentirmi.

Mi vestii per scappare, ma dato che i pantaloni e il maglione che indossavo erano stati un suo regalo per farsi perdonare, mi ordinò di toglierli: se proprio volevo andare via l’avrei fatto senza la « sua » roba. Mi fece spogliare, rimasi in mutande e reggiseno e rincorrendomi con un cavalletto per dipingere che desiderava rompermi in testa, mi scaraventò fuori dalla porta. Era inverno; piangevo, ero terrorizzata e avevo freddo. Aprì la porta e mi disse di entrare, dove volevo andare senza di lui? Aveva ragione, ero in trappola.

Pesavo quarantasette chili, gli occhi sempre velati, pallida e senza sorriso. Non riuscivo più a sognare, a immaginare la mia vita. Mi alzavo, mi vestivo, non potevo truccarmi e soprattutto ero continuamente vittima dei suoi agguati: quando usciva di casa e rimanevo sola a pettinare quell’incapacità di prendermi cura di me, lui all’improvviso rientrava e mi accusava di nascondere un presunto amante. Guardava sotto il letto, negli armadi, fuori dalle finestre. Era umiliante.

Qualche sera fa, una cara amica che non vedevo da molto mi chiesto: ma alla fine come hai trovato la forza di lasciarlo?

E’ stato strano.

L’ennesima lite, l’ennesima richiesta di perdono e…potrei giurarlo. All’improvviso non ero più la protagonista, ma spettatrice: stavo guardando la scena da fuori. Mi stavo guardando e mi facevo una pena infinita. Ascoltavo le sue parole, mentre provavo compassione per la mia miseria. Parlava, parlava, ma quelle parole altro non erano che bugie, arroganza, prepotenza e volontà di manipolare. Tra le tante cose che ascoltai non riuscii a trovare una parola d’amore.

Quello non poteva essere amore, no. L’amore ti deve far sorridere, ti deve far diventare bella, ti deve insegnare, far crescere, far dormire sonni tranquilli, ti deve incoraggiare e guardare con orgoglio le tue imprese solitarie.

Tornai in me e mi sentii dire: “Ho bisogno di stare da sola, almeno per un po’; lasciami andare”. Eravamo su una strada trafficata, non avrebbe potuto fare nulla. Credo che non si aspettasse quella mia affermazione, lo colsi impreparato. E noi? Lo sentii chiedere; avrei voluto urlare che non c’era noi, ma solo lui. Il noi era stato uno spauracchio per farmi restare, ma tutto quello che c’era era solo lui, i suoi interessi, i suoi sospetti, le sue voglie, i suoi tempi, i suoi gusti, i suoi colori, le sue botte, la sua violenza, la sua manipolazione. Io non c’ero più.

Salii in macchina e tornai a casa mia. Per la prima notte dormii di un sonno profondo, ristoratore, meraviglioso. Ho provato a ripartire e ci sono riuscita.

Non sono mancati i pedinamenti da parte sua, ma lentamente si arrese, forse era riuscito a trovare un’altra.

Ho voluto raccontare questa storia, questa mia storia, per provare a fare arrivare la luce anche a chi in questo momento vive al buio, per incoraggiare a vedersi anche chi non si vede più, per aiutare a ritrovarsi chi in questo momento non sa nemmeno su che pianeta abiti. Non è l’amore che ci lega a queste persone, non è perchè ci amano che scelgono di stare insieme a noi. E’ solo perchè siamo lo specchio migliore che fino a quel momento sono riusciti a trovare, dove vedono l’immagine di se stessi, uomini potenti e virili. Ma si dimenticano di vedere anche tutta la merda che lo specchio gli restituisce.

Sono riuscita ad uscirne credo per istinto di sopravvivenza, sono tornata a vivere con fatica, talvolta difettosa di fiducia nell’altro. Forse non so ancora bene cosa voglio, ma so certamente cosa non voglio.

Più, mai più.

Il tradimento del corpo

Ho avuto la mia seconda figlia poco prima di compiere i quarant’anni, e poiché ero terrorizzata dall’idea che qualcosa potesse andare storto mi sottoposi a un esame piuttosto invasivo, la villocentesi, che avrebbe rivelato la presenza di eventuali patologie genetiche nel bambino. 

Ho ancora il ricordo di un ago molto lungo che si infilava nella mia pancia di dodici settimane, del colorito terreo di mio marito quando vide il dottore che effettuava il prelievo, e dei giorni di assoluto riposo successivi all’esame affrontati senza ansie; perché mi fidavo – forse ingenuamente – della capacità del mio organismo di subire sollecitazioni anche così pesanti. 
Chiara di anni ne aveva 42 quando anche lei rimase incinta, e mi telefonò per sapere in cosa consistesse questo esame di cui le avevo parlato e a cui molte donne avevano paura di sottoporsi. Poiché a me era andato tutto bene sminuii la questione; le dissi di andare tranquilla, che era una cosa tutto sommato semplice e indolore; le dissi di affidarsi ai dottori e di non preoccuparsi, perché solo l’1% dei casi portava alla perdita del bambino. Lei era tosta, non sarebbe certamente successo nulla.
Mi telefonò piangendo poche settimane dopo: “Sono io quell’1%”, mi disse. Il prelievo aveva causato la rottura del sacco amniotico; lei era rimasta immobile in un letto di ospedale per alcuni giorni, ma aveva continuato a perdere liquido, finché i medici non avevano più sentito il battito del cuore del suo bambino.
Rimasi scioccata perché le avevo parlato di quell’esame come di un’esperienza da affrontare con serenità, e per lei si era rivelato un incubo di cui mi sentivo responsabile, anche se vivevamo in città diverse e non l’avevo indirizzata io dallo specialista a cui si era rivolta.
Non ho più parlato con leggerezza di malattie, interventi chirurgici, cure o terapie mediche da quel giorno, sottovalutandone la portata; ho capito, troppo tardi, che i corpi possono tradirci in qualsiasi momento, anche quando sono, o sembrano, forti e sani.
 
Non conosciamo noi stessi, a volte, come potremmo consigliare un’altra persona se spesso non siamo in grado neppure di ascoltare i segnali che ci manda il nostro?
Chiara è morta ieri.
Aveva appena compiuto 49 anni, e un tumore al pancreas non le ha lasciato scampo e se l’è portata via. Si è sottoposta a un’operazione lunga e delicatissima, ma non si è più svegliata. 
A fine luglio l’ho incontrata, era la prima volta che la vedevo da quando le avevano diagnosticato il male.
Mi ha detto che non aveva praticamente mai visto il mare, questa estate, e che sarebbe andata in un posto caldo d’inverno, col compagno e quel figlio che sette anni prima, per poche settimane, aveva avuto un fratello o una sorella.
 
Chiara mi ha parlato di quell’operazione come di uno spartiacque che non vedeva l’ora di attraversare, nonostante la paura e la preoccupazione. Ho pianto anche troppo, mi ha detto: e quando ho capito che non serve a nulla piangere, perché le lacrime non ti curano, ho ricominciato a sorridere e a sperare. 
 
Questa volta sono stata io a credere con tutte le mie forze alle sue parole, e ho pensato che quell’operazione le avrebbe regalato un altro po’ della vita meravigliosa che si meritava.
Il suo ultimo messaggio prima di entrare in sala operatoria è stato: vado, lo stronco e torno. Intanto annaffiatemi i fiori.
 
Sono certa che il posto dove sei andata adesso, amica mia, ne sia pieno, e sono di quelli che non appassiscono mai.
 
Stefania Berti

La malattia e la forza

Ho fatto i conti da vicino con la malattia due sole volte nella mia vita; mia nonna, che si è spenta lentamente in un letto dopo dieci anni di Alzheimer, e mio padre, che ho perso otto anni fa a causa di un brutto male ai polmoni.

Pochi giorni fa mi è capitato di imbattermi in una foto pubblicata su un profilo social: il volto di un’amica della mia età che conosco da una decina d’anni e frequento solo al mare durante le vacanze, meno di quel che mi piacerebbe. Viviamo in città diverse, in regioni diverse, e gli inverni passano senza che ci vediamo o sentiamo, se non per brevi messaggi.

Nella foto, Chiara – ma uso un nome di fantasia – aveva un sorriso bellissimo, uno sguardo obliquo e un taglio di capelli molto corto. Un taglio che non prometteva nulla di buono. Ho scoperto pochi giorni dopo che si è ammalata lo scorso anno ed è in attesa dell’intervento risolutivo; si trova su quel crinale sottile tra speranza e disperazione che percorre faticosamente, un passo alla volta, chi si ammala di tumore. Ne parla, ormai, con incredibile naturalezza; esce poco, perché è sempre debole, lei che in estate si trasformava in una creatura marina e viveva all’aperto.

Ho pensato a quanta intollerabile violenza nasconda una malattia come il cancro. Che si presenta all’improvviso come un ospite indesiderato, mette radici in luoghi dove non è gradito, e comincia a dettare legge. Diventa padrone della nostra vita e la condiziona, costringendo a adeguare orari e abitudini alle sue capricciose istanze, come in un rapporto disfunzionale in cui il malato è la vittima e il male il persecutore.

Ho pensato a quanta forza ci voglia per non abbandonarsi al panico quando si vede il proprio aspetto cambiare a causa delle chemioterapie. I capelli sono fin dagli albori della storia qualcosa che dice molto sull’identità femminile; le fanciulle egizie li curavano con oli e balsami, le matrone romane li portavano in elaborate acconciature, le streghe e le prostitute nel Medioevo sciolti e selvaggi come il loro carattere. E alle collaborazioniste li tagliavano per umiliarle, e per renderle riconoscibili da lontano. Così chiunque poteva sputar loro addosso e oltraggiarle senza timore di uno scambio di persona.

Chiara mi ha confessato che quando hanno iniziato a cadere è stato forse il momento più scioccante in questo lungo anno di calvario, e allora ha deciso di tagliarli come atto di ribellione.
Un modo per gridare più forte del suo male, affinché non abbia lui l’ultima parola.

La conosco come persona combattiva, ma anche le persone combattive a volte attraversano momenti di sconforto, e vorrebbero arrendersi. Spero che non lo faccia. E spero che il prossimo anno rivedrò la sua bella chioma bionda mossa dal maestrale della sua Liguria, che avrà spazzato via il ricordo di un’estate che in fondo non c’è stata.

Stefania Berti

Luana e Saman

Luana e Saman: sono due nomi femminili dal timbro dolce che abbiamo sentito ricordare spesso, nelle ultime settimane, purtroppo per vicende che di dolce non hanno proprio nulla.
Due ragazze giovanissime accomunate da un destino tragico: la morte se le è portate via troppo presto, e forse, in entrambi i casi ma per motivi diversi, si sarebbe potuto evitare che succedesse. La prima è morta in un incidente sul lavoro in un’azienda tessile di Montemurlo, perché i meccanismi di sicurezza che avrebbero dovuto bloccare un macchinario quando lei c’è finita contro non hanno funzionato. Della seconda si sono perse le tracce da aprile, ma gli inquirenti la danno ormai per morta e ne cercano i resti nei campi di Novellara, la cittadina emiliana dove viveva con la famiglia, di origine pakistana, e da dove era fuggita per sottrarsi a un matrimonio combinato.

Queste due storie non hanno apparentemente nulla in comune, se non la giovanissima età delle vittime – 22 anni Luana, 18 Saman – e la fine violenta a cui sono andate incontro.

Eppure un filo conduttore a me pare che ci sia: nel modo in cui i media hanno trattato le loro storie, dando un rilievo particolare alla loro bellezza.

Di Luana sono stati saccheggiati i profili social: ci è stata mostrata in posa, coi capelli su, coi capelli sciolti, bionda, mora, sorridente, imbronciata. Una ragazza bellissima, che in certe foto sembrava ancora una bambina, diventata madre molto giovane. Nei primi giorni dopo la sua morte alcuni giornali scrivevano che avesse una figlia, altri un figlio. La sensazione è che poco importasse, in fondo: maschio o femmina, la notizia aggiungeva dramma al dramma, e Luana ne era la protagonista ideale. Per questo la sua morte, ha scritto qualcuno, ha avuto più risalto di altre morti bianche, che di fatto nel nostro paese crescono a un ritmo che fa paura: sono state 1270 nel 2020, e già più di 300 quest’anno, quasi il 10% in più rispetto allo stesso periodo dell’anno prima.

Per Saman l’operazione è stata diversa, se possibile ancora più ambigua; ci è stato mostrato un prima e un dopo. Una ragazza con il velo, gli occhiali spessi, senza un filo di trucco e con l’espressione antica delle donne islamiche; e poi una giovane completamente diversa, col rossetto rosso, le sopracciglia depilate, i capelli ora mossi ora lisci, una fascia di stoffa in testa, la voglia di liberarsi dai condizionamenti e dalle imposizioni famigliari anche e soprattutto attraverso la sua trasformazione fisica.

Ho trovato sgradevole l’uso che si è fatto di quelle immagini. Era come se volessero dirmi: ecco, Saman è stata uccisa perché era diventata bella. L’anatroccolo si era trasformato in cigno, e il cigno doveva morire. Come se, di nuovo, la morte di una ragazza bella avesse un peso specifico maggiore. Come se dovessimo ricordarci di lei per come era diventata quando aveva scelto di vivere all’occidentale. Dissero esattamente l’opposto di Silvia Romano, quando tornò a casa dopo la sua liberazione, e si mostrò al mondo velata, perché nei lunghi mesi della sua prigionia si era convertita. Dissero che era diventata brutta.

Stefania Berti

Quando parliamo di femminismo, di cosa parliamo?

I tempi attuali hanno bisogno di inglobare più cose, più persone, più ruoli.
Non possiamo più permetterci che sia solo l’argomento di alcune donne, secondo moltɜ più “emancipate” di altre. Non sarebbe corretto, finanche riduttivo. Non sarebbe corretto che fosse appannaggio esclusivo di donne bianche benestanti, che comunque vivono una posizione di “privilegio”.
 
Il femminismo oggi ha bisogno esso stesso di un’altra emancipazione. Quando nasceva il movimento femminista l’intento era certamente conquistare la parità. Non la parità di genere, come moltɜ confusamente continuano a raccontare, ma una parità nei DIRITTI, diritti economici, sociali, politici e nei rapporti sociali. Noi non siamo uomini e non vorremmo neppure esserlo.
Quindi, poco c’entra il desiderare di farsi aprire una portiera o decidere di accettare l’offerta di una cena. 
Il femminismo è oggi in molti casi icona delle donne che vogliono affermarsi, che desiderano fare carriera, che hanno voglia di scalare le vette di un successo professionale. Di donne che affermano a gran voce di non volere figli. E rivendicano a ragione questo diritto.
 
Ci siamo invece forse dimenticatɜ delle donne che, contrariamente e volontariamente, vogliono dedicarsi alla propria famiglia, ai propri figli e alla propria casa. Ci siamo  scordatɜ di essere democraticɜ con quelle che i diritti spesso se li sudano anche di più.
 
 
Il grande equivoco storico è infatti pensare che la donna che sta a casa non lavora. Equivoco avvalorato da uno Stato che, nello stato di famiglia, la ritiene “a carico” del coniuge. Insomma “becca e bastonata” (come si dice in Toscana). 
Quando pensiamo a lavoro “non pagato” ci vengono in mente quelle forme illegali di lavoro in nero oppure quelle legate a retribuzioni sottovalutate. Difficilmente vengono in mente tutte quelle mansioni che in casa, se si vuole vivere con un minimo di pulizia e decoro, siamo “obbligatɜ” a fare. Pulire la cucina, lavare i pavimenti, stirare, mettere in ordine, pulire i bagni sono tutti lavori che nessuno paga. E di solito chi li fa? Una donna. 
 
E’ vero che le donne sono state le prime a pagare il prezzo della crisi dovuta alla pandemia: alcune hanno dovuto lasciare il lavoro, altre non lo trovano o hanno smesso di cercarlo. Molte lavorano da casa prendendosi cura di famiglia e dell’abitazione. C’è anche, però, chi decide di stare a casa per scelta personale e deve fare i conti con ɜ propriɜ compagnɜ, con lo Stato e spesso con le compagne di genere. Sono donne che spesso non hanno il minimo riconoscimento sociale e questo crea un senso di invisibilità e inutilità che mina l’orgoglio personale e l’appartenenza a una comunità.
Non sono donne meno emancipate o mantenute o pigre. Sono donne che hanno fatto un’altra scelta che prima di tutto dovremmo imparare a rispettare. 
Crediamo che questo, per citare la scrittrice Michela Murgia, sia un’altra eredità del patriarcato da cui dovremo liberarci a breve.
 
Rivendicare il diritto di sentirsi femministe E casalinghe.
 
Voi cosa ne pensate?
 
Margherita Lunati e Francesca Brunetti 

Pensiamoci …

Un socio del centro di ascolto, Gianni Rombenchi, ci ha inviato questa poesia che molto volentieri pubblichiamo.

Urla la voce del ghiaccio dal polo:
Signori, io qui sono sempre più solo,
di me non resta che qualche cubetto…
vi prego smettete, l’avevo già detto.
Ormai sono anni che mi sciolgo ogni giorno,
se muoio per sempre, poi non ritorno…
e verranno con me foche, orsi e pinguini.
Resterà solo una foto, per i vostri bambini!
Ma il mio sacrificio non sarà vano,
all’acqua del mare tenderò la mia mano…
e forse da “liquido” troverò pace,
ma quanta plastica intorno, che non mi piace!!!
Vorrei agitarmi, liberarmi e fuggire,
ora sono il mare, ma non voglio morire!
A questo scempio io mi ribello
ed alzerò con forza il mio livello,
fino a sommergere un po’ di costa
e tutto quello che non si sposta!!!
Di nuovo ed ancora mi avete inquinato
e non posso che darvi poco pescato!
Così son costretto ad evaporare …
Adesso sono una nube e posso volare!
Ecco, che dall’atmosfera riesco a vedere,
l’effetto serra ed il suo potere…
Anche qui respiro le vostre acre emissioni:
mi lacrimano gli occhi, mi soffocano i polmoni.
Le acide piogge sono il mio pianto,
che cadono al suolo, come uno schianto …
I miei colpi di tosse sono uragani,
gli ultimi avvisi per voi umani!!!
Perché se ancora non lo avete capito …
io sono il Clima, ma non sono impazzito!!!
Difendo il Pianeta dalla tua idiozia, 
da quello che crei e poi getti via!
Proteggo soltanto questa sfera di terra,
da te, uomo, e dalla tua “economica guerra”,
fatta di soldi, consumo ed oggetti,
di ottusi interessi, che tu non ammetti.
Hai cambiato il ciclo delle stagioni,
nell’arco di poche generazioni!
Lo chiami benessere e forse progresso?
Ma tiri la corda un po’ troppo spesso!!!
Sei l’animale più intelligente,
dimostralo adesso, o non vali più niente!!!

Foto di Carles Rabada su Unsplash

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Non mi è mai piaciuto il termine “femminicidio”

Ci sento dentro quel “femmina” che non mi convince, perché mi fa venire in mente gli animali, e tutte le volte in cui abbiamo sentito usare quella stessa parola in senso dispregiativo (“ti comporti da femmina”), o per alludere a atteggiamenti percepiti in qualche modo come sbagliati (“sei effemminato”, “sei una femminuccia”). Le parole sono importanti, feriscono più che le spade, dice una frase di cui si è perduta la paternità; e capisco che “donnicidio” suonerebbe anche peggio, ma la questione è un’altra.

La questione è che si è reso necessario coniare una nuova parola quando gli omicidi di vittime di sesso femminile sono diventati così numerosi da doverli inserire in una sorta di categoria a sé. Non si trattava più soltanto di omicidi, ma di gesti di violenza perpetrati per precisi motivi di genere: una vittima cade sotto un coltello o un colpo di pistola perché donna. Perché un suo comportamento induce qualcuno – che si tratti di un compagno, un fratello, un padre, un datore di lavoro, o semplicemente uno sconosciuto – a sentirsi in diritto di toglierle la vita.

Foto di Silvestri Matteo su Unsplash

Se si guarda alla storia recente c’è un solco insanguinato, prima del quale il termine femminicidio (o femicide, il gemello inglese da cui si è diffuso piano piano nelle altre lingue) compariva soltanto negli studi universitari di matrice femminista, e certo non fra le notizie di apertura dei telegiornali. Quel solco è il 1993: l’anno in cui hanno inizio gli omicidi di Ciudad Juarez, la città al confine tra Messico e Texas in cui cominciano a sparire le operaie delle maquiladoras, le fabbriche di proprietà statunitense che danno lavoro a migliaia di messicani poveri in un regime di sfruttamento.

Non esistono dati precisi, perché le autorità locali tendono a nascondere molti crimini riconducibili al narcotraffico, ma si parla di più di tremila vittime, molte delle quali hanno subito una sorte orribile: violentate, fatte a pezzi e ritrovate nelle aree desertiche ai margini della città. Oppure sparite senza lasciare traccia: di loro restano solo le tante croci rosa erette dalle loro madri per ricordare che lì sono vissute e lì hanno trovato la morte, per mano di assassini che spesso restano impuniti.

La loro storia è giunta fino a noi: nel nome che ne ha definito il crimine, femminicidio appunto, e nell’opera di un’artista messicana che le ha celebrate. L’istallazione Zapatos rojos di Elina Chauvet dal 2009 riunisce e porta in giro nelle città del mondo centinaia di scarpe femminili disposte a formare una marcia silenziosa e accusatrice, il cammino che le migliaia di donne uccise a cui l’opera è dedicata non faranno mai più in questo mondo. Sono tutte rosse, come il colore della passione e del sangue, che la letteratura di ogni epoca ha troppo spesso unito in un nodo inestricabile, considerando le donne responsabili della prima e quindi meritevoli del secondo.

Come la Francesca da Rimini celebrata da Dante nel canto V dell’Inferno, uccisa con l’amante, Paolo, dal marito violento che li sorprende insieme. Sono peccatori che “la ragion sommettono al talento”, cioè al desiderio.
Un desiderio inammissibile, proibito, ancorché genuino. La perdita della razionalità li conduce all’errore, e quindi alla dannazione eterna.

La colpa di quell’errore, e in fondo di qualunque altro errore, è sempre ricaduta sulle donne. E sono migliaia di anni che le donne ne pagano le conseguenze. Negli atti, e persino attraverso le parole.

Stefania Berti

Cambiare

Sì, abbiamo ragione a schifarci del video di Grillo. Per le parole, il modo e anche la superficialità
È un padre che se condannano il proprio figlio dovrà fare i conti con se stesso, prima che con la legge. 
Perché, se tutto venisse confermato, sarà un padre che non ha insegnato abbastanza i concetti di rispetto, del senso del limite e della differenza
Non riesco ancora a rassegnarmi a chi urla questa inaccettabile cantilena sulle vittime, che denunciano troppo tardi o troppo presto, di quelle che non appaiono abbastanza scosse o troppo, di quelle che sapevano a cosa andavano incontro e quindi recitano, di quelle che non hanno una buona fama o di quelle che ce l’hanno troppo buona e quindi è falsa.
Mi continuo d’altronde a stupire del fatto che ci accorgiamo di tutto questo quando c’è qualcuno che urla questa triste realtà. Quando non possiamo fare a meno di ascoltarla, fra commenti e opinioni spesso di bassa lega.
L’occhio sulla vittima, sempre.
Grillo ha fatto un video sottolineando che il giorno dopo la ragazza che ha denunciato i quattro giovani, tra cui il figlio, con l’accusa di violenza di gruppo, sia andata a fare kite surf. Quindi questo “minimizzava” il concetto di violenza.
Abbiamo avuto una nota carica istituzionale che riceveva minorenni nella sua villa per fare festini. Si è parlato (o meglio, straparlato) di “carne fresca” a disposizione di maschi facoltosi che pagavano profumatamente le ragazze. Eppure se si tratta di minorenni, si tratta di violenza.
Abbiamo assistito alle testimonianze contro Weinstein, accuse che hanno generato il movimento femminista metoo, scartando però le vittime che poco rappresentavano la parola violenza ai nostri occhi.

Non può reggere. Non possiamo più continuare, alla luce di una violenza denunciata, a guardare con sospetto la vittima cercando di rintracciare l’alibi di chi l’ha agita. Non possiamo standardizzare comportamenti legati ad una reazione personale.

Se va a fare kite surf allora che violenza è?, se viene pagata anche se è minorenne non possiamo dire che è violenza e se entra in camera di un uomo potente cosa pensava di fare?…

Invece di standardizzare la vittima, cercando un comune denominatore alla reazione, cominciamo a delineare meglio cosa significa agire violenza: se quello che è stato agito è stato fatto nel rispetto della persona, dell’età, dell’esercizio del potere, dell’etica.
 
Una volta fatto questo scopriremo che quello che ha fatto la vittima il giorno dopo, se ha ricevuto dei soldi o se abbia avuto altre relazioni ci interesserà sempre meno, perché stiamo imparando a chiamare la violenza con il suo nome, guardandola in faccia e scoprendo finalmente che la vittima la violenza la subisce, non la provoca.
 

Abbiamo bisogno di cambiare per poter creare una società migliore, magari non del tutto scevra dalla violenza, ma almeno che sia in grado di riconoscerla.

Margherita Lunati