Il tradimento del corpo

Ho avuto la mia seconda figlia poco prima di compiere i quarant’anni, e poiché ero terrorizzata dall’idea che qualcosa potesse andare storto mi sottoposi a un esame piuttosto invasivo, la villocentesi, che avrebbe rivelato la presenza di eventuali patologie genetiche nel bambino. 

Ho ancora il ricordo di un ago molto lungo che si infilava nella mia pancia di dodici settimane, del colorito terreo di mio marito quando vide il dottore che effettuava il prelievo, e dei giorni di assoluto riposo successivi all’esame affrontati senza ansie; perché mi fidavo – forse ingenuamente – della capacità del mio organismo di subire sollecitazioni anche così pesanti. 
Chiara di anni ne aveva 42 quando anche lei rimase incinta, e mi telefonò per sapere in cosa consistesse questo esame di cui le avevo parlato e a cui molte donne avevano paura di sottoporsi. Poiché a me era andato tutto bene sminuii la questione; le dissi di andare tranquilla, che era una cosa tutto sommato semplice e indolore; le dissi di affidarsi ai dottori e di non preoccuparsi, perché solo l’1% dei casi portava alla perdita del bambino. Lei era tosta, non sarebbe certamente successo nulla.
Mi telefonò piangendo poche settimane dopo: “Sono io quell’1%”, mi disse. Il prelievo aveva causato la rottura del sacco amniotico; lei era rimasta immobile in un letto di ospedale per alcuni giorni, ma aveva continuato a perdere liquido, finché i medici non avevano più sentito il battito del cuore del suo bambino.
Rimasi scioccata perché le avevo parlato di quell’esame come di un’esperienza da affrontare con serenità, e per lei si era rivelato un incubo di cui mi sentivo responsabile, anche se vivevamo in città diverse e non l’avevo indirizzata io dallo specialista a cui si era rivolta.
Non ho più parlato con leggerezza di malattie, interventi chirurgici, cure o terapie mediche da quel giorno, sottovalutandone la portata; ho capito, troppo tardi, che i corpi possono tradirci in qualsiasi momento, anche quando sono, o sembrano, forti e sani.
 
Non conosciamo noi stessi, a volte, come potremmo consigliare un’altra persona se spesso non siamo in grado neppure di ascoltare i segnali che ci manda il nostro?
Chiara è morta ieri.
Aveva appena compiuto 49 anni, e un tumore al pancreas non le ha lasciato scampo e se l’è portata via. Si è sottoposta a un’operazione lunga e delicatissima, ma non si è più svegliata. 
A fine luglio l’ho incontrata, era la prima volta che la vedevo da quando le avevano diagnosticato il male.
Mi ha detto che non aveva praticamente mai visto il mare, questa estate, e che sarebbe andata in un posto caldo d’inverno, col compagno e quel figlio che sette anni prima, per poche settimane, aveva avuto un fratello o una sorella.
 
Chiara mi ha parlato di quell’operazione come di uno spartiacque che non vedeva l’ora di attraversare, nonostante la paura e la preoccupazione. Ho pianto anche troppo, mi ha detto: e quando ho capito che non serve a nulla piangere, perché le lacrime non ti curano, ho ricominciato a sorridere e a sperare. 
 
Questa volta sono stata io a credere con tutte le mie forze alle sue parole, e ho pensato che quell’operazione le avrebbe regalato un altro po’ della vita meravigliosa che si meritava.
Il suo ultimo messaggio prima di entrare in sala operatoria è stato: vado, lo stronco e torno. Intanto annaffiatemi i fiori.
 
Sono certa che il posto dove sei andata adesso, amica mia, ne sia pieno, e sono di quelli che non appassiscono mai.
 
Stefania Berti

La malattia e la forza

Ho fatto i conti da vicino con la malattia due sole volte nella mia vita; mia nonna, che si è spenta lentamente in un letto dopo dieci anni di Alzheimer, e mio padre, che ho perso otto anni fa a causa di un brutto male ai polmoni.

Pochi giorni fa mi è capitato di imbattermi in una foto pubblicata su un profilo social: il volto di un’amica della mia età che conosco da una decina d’anni e frequento solo al mare durante le vacanze, meno di quel che mi piacerebbe. Viviamo in città diverse, in regioni diverse, e gli inverni passano senza che ci vediamo o sentiamo, se non per brevi messaggi.

Nella foto, Chiara – ma uso un nome di fantasia – aveva un sorriso bellissimo, uno sguardo obliquo e un taglio di capelli molto corto. Un taglio che non prometteva nulla di buono. Ho scoperto pochi giorni dopo che si è ammalata lo scorso anno ed è in attesa dell’intervento risolutivo; si trova su quel crinale sottile tra speranza e disperazione che percorre faticosamente, un passo alla volta, chi si ammala di tumore. Ne parla, ormai, con incredibile naturalezza; esce poco, perché è sempre debole, lei che in estate si trasformava in una creatura marina e viveva all’aperto.

Ho pensato a quanta intollerabile violenza nasconda una malattia come il cancro. Che si presenta all’improvviso come un ospite indesiderato, mette radici in luoghi dove non è gradito, e comincia a dettare legge. Diventa padrone della nostra vita e la condiziona, costringendo a adeguare orari e abitudini alle sue capricciose istanze, come in un rapporto disfunzionale in cui il malato è la vittima e il male il persecutore.

Ho pensato a quanta forza ci voglia per non abbandonarsi al panico quando si vede il proprio aspetto cambiare a causa delle chemioterapie. I capelli sono fin dagli albori della storia qualcosa che dice molto sull’identità femminile; le fanciulle egizie li curavano con oli e balsami, le matrone romane li portavano in elaborate acconciature, le streghe e le prostitute nel Medioevo sciolti e selvaggi come il loro carattere. E alle collaborazioniste li tagliavano per umiliarle, e per renderle riconoscibili da lontano. Così chiunque poteva sputar loro addosso e oltraggiarle senza timore di uno scambio di persona.

Chiara mi ha confessato che quando hanno iniziato a cadere è stato forse il momento più scioccante in questo lungo anno di calvario, e allora ha deciso di tagliarli come atto di ribellione.
Un modo per gridare più forte del suo male, affinché non abbia lui l’ultima parola.

La conosco come persona combattiva, ma anche le persone combattive a volte attraversano momenti di sconforto, e vorrebbero arrendersi. Spero che non lo faccia. E spero che il prossimo anno rivedrò la sua bella chioma bionda mossa dal maestrale della sua Liguria, che avrà spazzato via il ricordo di un’estate che in fondo non c’è stata.

Stefania Berti