La malattia e la forza

Ho fatto i conti da vicino con la malattia due sole volte nella mia vita; mia nonna, che si è spenta lentamente in un letto dopo dieci anni di Alzheimer, e mio padre, che ho perso otto anni fa a causa di un brutto male ai polmoni.

Pochi giorni fa mi è capitato di imbattermi in una foto pubblicata su un profilo social: il volto di un’amica della mia età che conosco da una decina d’anni e frequento solo al mare durante le vacanze, meno di quel che mi piacerebbe. Viviamo in città diverse, in regioni diverse, e gli inverni passano senza che ci vediamo o sentiamo, se non per brevi messaggi.

Nella foto, Chiara – ma uso un nome di fantasia – aveva un sorriso bellissimo, uno sguardo obliquo e un taglio di capelli molto corto. Un taglio che non prometteva nulla di buono. Ho scoperto pochi giorni dopo che si è ammalata lo scorso anno ed è in attesa dell’intervento risolutivo; si trova su quel crinale sottile tra speranza e disperazione che percorre faticosamente, un passo alla volta, chi si ammala di tumore. Ne parla, ormai, con incredibile naturalezza; esce poco, perché è sempre debole, lei che in estate si trasformava in una creatura marina e viveva all’aperto.

Ho pensato a quanta intollerabile violenza nasconda una malattia come il cancro. Che si presenta all’improvviso come un ospite indesiderato, mette radici in luoghi dove non è gradito, e comincia a dettare legge. Diventa padrone della nostra vita e la condiziona, costringendo a adeguare orari e abitudini alle sue capricciose istanze, come in un rapporto disfunzionale in cui il malato è la vittima e il male il persecutore.

Ho pensato a quanta forza ci voglia per non abbandonarsi al panico quando si vede il proprio aspetto cambiare a causa delle chemioterapie. I capelli sono fin dagli albori della storia qualcosa che dice molto sull’identità femminile; le fanciulle egizie li curavano con oli e balsami, le matrone romane li portavano in elaborate acconciature, le streghe e le prostitute nel Medioevo sciolti e selvaggi come il loro carattere. E alle collaborazioniste li tagliavano per umiliarle, e per renderle riconoscibili da lontano. Così chiunque poteva sputar loro addosso e oltraggiarle senza timore di uno scambio di persona.

Chiara mi ha confessato che quando hanno iniziato a cadere è stato forse il momento più scioccante in questo lungo anno di calvario, e allora ha deciso di tagliarli come atto di ribellione.
Un modo per gridare più forte del suo male, affinché non abbia lui l’ultima parola.

La conosco come persona combattiva, ma anche le persone combattive a volte attraversano momenti di sconforto, e vorrebbero arrendersi. Spero che non lo faccia. E spero che il prossimo anno rivedrò la sua bella chioma bionda mossa dal maestrale della sua Liguria, che avrà spazzato via il ricordo di un’estate che in fondo non c’è stata.

Stefania Berti