Non mi è mai piaciuto il termine “femminicidio”

Ci sento dentro quel “femmina” che non mi convince, perché mi fa venire in mente gli animali, e tutte le volte in cui abbiamo sentito usare quella stessa parola in senso dispregiativo (“ti comporti da femmina”), o per alludere a atteggiamenti percepiti in qualche modo come sbagliati (“sei effemminato”, “sei una femminuccia”). Le parole sono importanti, feriscono più che le spade, dice una frase di cui si è perduta la paternità; e capisco che “donnicidio” suonerebbe anche peggio, ma la questione è un’altra.

La questione è che si è reso necessario coniare una nuova parola quando gli omicidi di vittime di sesso femminile sono diventati così numerosi da doverli inserire in una sorta di categoria a sé. Non si trattava più soltanto di omicidi, ma di gesti di violenza perpetrati per precisi motivi di genere: una vittima cade sotto un coltello o un colpo di pistola perché donna. Perché un suo comportamento induce qualcuno – che si tratti di un compagno, un fratello, un padre, un datore di lavoro, o semplicemente uno sconosciuto – a sentirsi in diritto di toglierle la vita.

Foto di Silvestri Matteo su Unsplash

Se si guarda alla storia recente c’è un solco insanguinato, prima del quale il termine femminicidio (o femicide, il gemello inglese da cui si è diffuso piano piano nelle altre lingue) compariva soltanto negli studi universitari di matrice femminista, e certo non fra le notizie di apertura dei telegiornali. Quel solco è il 1993: l’anno in cui hanno inizio gli omicidi di Ciudad Juarez, la città al confine tra Messico e Texas in cui cominciano a sparire le operaie delle maquiladoras, le fabbriche di proprietà statunitense che danno lavoro a migliaia di messicani poveri in un regime di sfruttamento.

Non esistono dati precisi, perché le autorità locali tendono a nascondere molti crimini riconducibili al narcotraffico, ma si parla di più di tremila vittime, molte delle quali hanno subito una sorte orribile: violentate, fatte a pezzi e ritrovate nelle aree desertiche ai margini della città. Oppure sparite senza lasciare traccia: di loro restano solo le tante croci rosa erette dalle loro madri per ricordare che lì sono vissute e lì hanno trovato la morte, per mano di assassini che spesso restano impuniti.

La loro storia è giunta fino a noi: nel nome che ne ha definito il crimine, femminicidio appunto, e nell’opera di un’artista messicana che le ha celebrate. L’istallazione Zapatos rojos di Elina Chauvet dal 2009 riunisce e porta in giro nelle città del mondo centinaia di scarpe femminili disposte a formare una marcia silenziosa e accusatrice, il cammino che le migliaia di donne uccise a cui l’opera è dedicata non faranno mai più in questo mondo. Sono tutte rosse, come il colore della passione e del sangue, che la letteratura di ogni epoca ha troppo spesso unito in un nodo inestricabile, considerando le donne responsabili della prima e quindi meritevoli del secondo.

Come la Francesca da Rimini celebrata da Dante nel canto V dell’Inferno, uccisa con l’amante, Paolo, dal marito violento che li sorprende insieme. Sono peccatori che “la ragion sommettono al talento”, cioè al desiderio.
Un desiderio inammissibile, proibito, ancorché genuino. La perdita della razionalità li conduce all’errore, e quindi alla dannazione eterna.

La colpa di quell’errore, e in fondo di qualunque altro errore, è sempre ricaduta sulle donne. E sono migliaia di anni che le donne ne pagano le conseguenze. Negli atti, e persino attraverso le parole.

Stefania Berti