Oggi è la Giornata Mondiale per la diversità culturale, il dialogo e lo sviluppo. E’ stata istituita dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite per ribadire l’importanza della diversità naturale e culturale del mondo.
Per noi è parte della nostra società: l’etnocentrismo che spesso ci fa scandalizzare di fronte a usanze differenti dalle nostre deve essere superato per pensare in modo creativo e collaborare in modo produttivo.
La diversità è complessa, variabile e difficile da definire: proprio per questo forse spesso cerchiamo di infilarla in categorie e sottocategorie. Ci è piaciuta la definizione di diversità biologica (o biodiversità) formulata dalla Convenzione sulla Diversità Biologica delle Nazioni Unite che utilizza anche Fabrizio Acanfora nel suo bellissimo libro “In Altre Parole. Dizionario minimo di diversità“:
“variabilità tra gli organismi viventi di ogni origine compresi, tra l’altro, gli ecosistemi terrestri, marini ed acquatici e i complessi ecologici di cui sono parte; questo comprende la diversità in una stessa specie, tra le specie e quella degli ecosistemi”.
La diversità è dunque in noi, nella natura e nella società, “è quella condizione che comprende ogni persona senza fare alcuna distinzione, in un’ottica non più categoriale, ma intersezionale, perché ciascuno di noi è il risultato di tante unicità” (cit. Acanfora, “In Altre Parole“).
Troppo spesso tra l’altro la diversità è stata contrapposta alla “normalità“. L’etimologia di “normale” è da ricondursi al latino “norma“, sostantivo che indica la “squadra” o la “regola”, lo strumento utile a misurare gli angoli retti, da cui normalis (perpendicolare, retto). In questo senso l’idea di normalità richiama quella di rettitudine, di esattezza, di regolarità. Nel linguaggio quotidiano, fra le sue varie accezioni, ci sono quelle di “abituale”, “comune”,
“consueto”, “regolare”, “logico”, “giusto”, “equilibrato”, mentre in medicina è sinonimo di “sano”,
“naturale”.
Quindi tutto quello che è fuori dalla “norma” diventa diverso e viene escluso dal “gruppo maggioritario” perché minaccia di minarne le fondamenta.
Invece bisognerebbe iniziare a definire la diversità in quanto tale, in quanto portatrice di caratteristiche proprie e non comparate a quelle della “normalità”.
Abbiamo l’umana necessità di avere legami, reti, rapporti, di avere dialoghi. E questo lo abbiamo visto soprattutto in questo ultimo anno dove tutte queste relazioni non le abbiamo potute avere o non le abbiamo potute vivere appieno.
Ma un dialogo fecondo si ha prima di tutto con persone diverse da noi. Ogni cultura ha una sua storia. Ognunǝ si può riconoscere nella storia di altrǝ. Altrimenti, come dice Chimamanda Ngozi Adichie, si incorre nel “pericolo di un’unica storia”.
Uniamo i “puntini”, iniziamo a pensare in termini di comunità e non più di singoli soggetti facenti il proprio interesse e basta, tracciamo una mappa di comunità, dove si possa dare voce anche a chi ne ha meno o chi non ne ha per niente.
Quella che ci auguriamo è la ricerca dell’Altrǝ.
Francesca Brunetti